Poesia
La parola stupefatta di Andreotti
Quando nominiamo qualcosa o qualcuno gli conferiamo un tempo e uno spazio, gli affidiamo una presenza seguendo il nostro punto di vista. Angelo Andreotti con la recente Tra parola e mondo (Manni, 2021, pp. 128, euro 14) torna a una parola che invera, perciò temuta e sottostimata di continuo, recuperandone la sacralità intrinseca. Tra assenze e rinvenimenti imprevisti di senso, il poeta ripristina un uso autentico della lingua di appartenenza, come chi trova la strada di casa non ricordando il nome delle vie: «scivolando sui forse dei ricordi. / Giusto il silenzio conserva memoria» (p. 12). La sintonia con ciò che sostiene Duccio Demetrio in All’antica. Una maniera di esistere (Raffaello Cortina, 2021) è palese: i ricordi sono necessari, così la nostra capacità di manipolarli, sia a livello inconscio sia conscio. I ricordi non sono mai totalmente veritieri, eppure serbarli o esporli serve a mantenere un legame con il passato, da cui non si può sfuggire. Forse si può ignorare, ma inutilmente lungo via San Romano, a Ferrara, «e nascondere i suoi giorni / insignificanti e colpevoli / ai nostri sguardi sottratti alla grazia» (p. 100). Non a caso, nel 2008 l’autore ha dato alle stampe La faretra di Zenone, la sua seconda raccolta di frammenti lirici, appropriandosi del celebre paradosso: secondo il fondatore dello stoicismo sembrava che una freccia scoccata si muovesse soltanto in apparenza, ma in realtà fosse immobile, poiché considerava il tempo composto da infiniti istanti e ognuno di essi era statico. Inoltre Zenone replicava a Diogene «che è completamente naturale per noi aspirare alle cose che ci aiutano a sopravvivere: cibo, ripari, cose che preservano la nostra salute o che contribuiscono al nostro benessere fisico» (vd. Sette brevi lezioni sullo stoicismo, di J. Sellars, Einaudi, pp. 7-8).
Pur ritornando a una ritualità del quotidiano, a una costellazione di gesti ricorrenti con una serie di colpi a vuoto di caproniana memoria, non emblemizza ne crocifigge le piccole cose, bensì affranca il lettore dalla loro finitezza. Diversamente dall’ammirato Guy Goffette in Eloge pour une cuisine de province (1988), tradotto da Chiara De Luca per le Edizioni Kolibris nel 2013, Andreotti continua a rifiutare con rigore l’identificazione tra l’io e la funzione che attribuisce agli strumenti ordinari, alle appendici delle sue abitudini, e va oltre. A Goffette manca la dimensione meditativa, che invece è intensa e preponderante nell’opera di Yves Bonnefoy e in quella del ferrarese; entrambi sono inscrivibili, con risultati ovviamente differenti, al pensiero poetante approfondito da Antonio Prete in svariati contesti. Nella produzione di Bonnefoy il linguaggio tende alla parola poetica come spazio indispensabile, ma senza rinunciare ad approssimarsi alla materialità delle cose, specie «quando la luce si fa gialla foglia, / bianco sasso, dettaglio del buio / oscurarsi, del tenue inscurirsi / dell’ombra in impalpabile sostanza…» (p. 77).
Già dal titolo che riporta un frammento di Kathleen Jamie, la raccolta di Andreotti non racconta, non crea mondi paralleli a quello attuale, bensì attualizza la funzione epidittica con cui fu concepita la poesia stessa nell’antichità classica, esponendo valori condivisi e richiamando il lettore a una netta posizione morale: «Così ti basta sollevare gli occhi, / lasciarti prendere, lasciarti perdere» (p. 66). In questa nuova prova in versi il rapporto tra l’io e la collettività si rivela il metro fondamentale con cui il poeta misura la sua esistenza in mezzo a quelle altrui, ma senza i deliri narcisistici a cui sono inclini svariate penne contemporanee, «giusto il tempo di una grazia» (p. 74). (Matteo Bianchi)
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