Articoli
La paranza dei bambini. La rete da cui non si può uscire
di Valeria Susini
La Paranza Dei Bambini di Roberto Saviano è un libro sull’oggi in cui stiamo annaspando e annegando. Sarebbe un errore intenderlo come un libro che racconta una realtà circoscritta a quella di Napoli e più nello specifico di Forcella, sarebbe una svista imperdonabile. Dice bene Roberto Saviano quando indirizza la lettura de La Paranza dei Bambini alle madri tutte, perché questo libro deve essere specchio e avvisaglia, riflessione e lente di ingrandimento. Troppo facile dire “eh, vabbè, sempre le solite storie di camorra… Napoli è un mondo a parte, lì regna l’anarchia”. No, non è così. La paranza dei bambini è il racconto di una realtà napoletana ben precisa, fatta di bambini al soldo dei camorristi più crudi e che sognano di diventare boss, ed è, però, allo stesso tempo, il racconto dell’Italia di oggi e della postmodernità con cui ci scontriamo quotidianamente. È una profonda riflessione sul fragilissimo legame tra famiglia e società, e poi su quello interno alle stesse famiglie, tra madri, padri e figli.
La paranza dei bambini racconta il sogno di Nicolas di formare e dirigere una paranza tutta sua, un insieme di guagliuncelli che invece di stare al soldo di qualche boss, possano diventare indipendenti e soprattutto temuti. Perché è l’essere temuti che conta, l’incutere soggezione che funziona e che ti dà le chiavi di un rione, come ben sa Nicolas che attinge dal Principe di Machiavelli la sua nozione di potere e autorità. E per arrivare a quelle chiavi Nicolas e i suoi amici sono disposti a tutto, anche a fare quegli immensi sacrifici di alzatacce la mattina, di meticolose pianificazioni di strategie, di sudate e impegno materiale che se solo fossero messi al servizio di scuola e studio, li condurrebbe a tutt’altra strada, quella del riscatto. Ma il riscatto qui non c’è e, pertanto, non è nemmeno contemplato. L’unico traguardo è tirare a campare, ma bene: coi soldi e il rispetto della gente.
“Dragò disse: – Dentì, oggi ci stammo, domani nun ce stammo. T’’o rriccuorde? Amico, nemico, vita, morte: è la stessa cosa. ′O ssapimmo nuje, e lo sai pure tu. Accussì è. È ′n’attimo. È accussì che se campa, no?”
Questa è la filosofia della paranza dei bambini, di tutti e dieci i bambini che sfrecciano tra gli angusti vicoli di Forcella e le sontuose strade del centro storico allo stesso modo: facendosi largo con violenza inaudita, menefreghismo, apatia, sfottò. E quando questi ragazzini non tengono conto nemmeno del pericolo della morte, allora diventano dieci mine vaganti perché agiscono come se non avessero nulla da perdere, o forse perché davvero, in fondo, non hanno nulla da perdere. Nicolas parla dell’Isis e dei kamikaze come di uomini “con le palle” perché muoiono per qualcosa che vogliono. Nicolas non parla di qualcosa in cui credere, attenzione, ma di qualcosa che si vuole, qualcosa da ottenere. È il possesso la chiave interpretativa: non idee, ma cose e fatti. “Chi per ottenere qualcosa si fa morire, tiene ′e ppalle, punto. (…) Chi va a morire per ottené ′nu fatto, è uno grosso.” Non futuro e progetti, ma ora e subito, armi e soldi.
Il mondo di questi bambini e ragazzini è senza domani. E tale visione è corroborata e portata alle massime conseguenze da tutta una nuova realtà che si intreccia con quella atavica delle paranze e della camorra: le nuove tecnologie, modello e megafono al tempo stesso, per apprendere e diffondere il peggio, il proprio modello di vita, la propria legge. Laddove la voce paterna evapora, per dirla con le parole di Massimo Recalcati, subentra un nuovo “padre”, You Tube. Dentro quel tubo catodico virtuale si trova di tutto: pornostar che imbracciano armi, tutorial per montarle, tutorial per imbracciarle, poi, quelle armi. You Tube diventa mondo che poi viene riproposto e riadattato puntualmente nelle strade di qualsiasi città, Napoli compresa. ′O Marajà, Dentino, Cerino, Biscottino, Lollipop, Dragò, Drone, Pesce Moscio, Stavodicendo, Briatò, Tucano sparano sui tetti di Forcella per esercitarsi mentre guardano su You Tube scene famose di film di mafia o di camorra. Twitter e Facebook, invece, diventano amplificatori per diffondere il verbo, per avvertire, per mostrare la faccia di chi vuole comandare, per sputtanare definitivamente qualcuno a cui si vuole fare male perché, magari, ha messo un like di troppo alla fidanzata di qualcuno altro.
Le donne, poi: oggetto e possesso dei maschi, sin da piccole.Ma di questo ne fanno orgoglio e vantaggio, ostentazione quando siano cosa di uno forte, vergogna quando appartengano a qualcuno che non sa farsi valere, che non sa sparare, minacciare, incutere vera paura. Sono ingranaggi del Sistema, le femmine, e crescono in questa altalena interminabile di piazzate, litigi e rimostranze da una parte e vanto, appartenenza e fierezza dall’altra. Ne assorbono le logiche, le leggi, e fanno propri i concetti di Giusto e Sbagliato, che, però, sono intrecciati su una grammatica tutta diversa. Giusto è ammazzare se hai ammazzato o mandato in galera qualcuno. Sbagliato, o eccessivo, è far prostituire la sorella di qualcuno che ha solo rubato per poi restituire. Sbagliato è pestare i piedi, sconfinare nel rione di un’altra Famiglia, giusto è uccidere per vendetta, perché il sangue va lavato col sangue. In un circolo che non si chiude mai e si fa spirale, risucchio. L’idea di uscire da questa logica non sfiora mai nessuno dei protagonisti.
Poi ci sono le madri e i padri. Bofonchiano, si arrabbiano, urlano, ma non indagano mai troppo a fondo, non seguono mai le tracce fino all’ultimo e preferiscono fermarsi giusto un passo prima, al di qua di quel confine che svelerebbe il tetro scenario, che scioglierebbe i dubbi, che porrebbe di fronte a una scelta irreversibile. Preferiscono sempre rimanere in un tiepido torpore dove solo ogni tanto i freddi spilli della consapevolezza trafiggono il cuore, la carne, la mente. Le madri, in particolare, rimangono sole, spesso le uniche a vedere e capire, mentre i padri sognano, immaginano futuri impossibili per quei figli che invece, come amaramente le madri sanno, sprofonderanno nelle grinfie locali del presente. Della madre di Nicolas, Saviano scrive “…suo marito era cecato, per modo di dire, non vedeva i figli di cosa avevano bisogno, non vedeva.” Questa è la realtà delle famiglie della paranza: o genitori delinquenti e camorristi o genitori per bene ma impotenti. Soccombere o adattarsi. Non c’è scampo. Ed infatti, anche per quei bambini che nella paranza non ci entrano, i codici semantici del mondo che abitano rimangono gli stessi: il rispetto, il sopruso, il pizzo, le mazzate, le urla, le scenate, il servizio occasionale per chi è più potente di te. E così chi resta fuori, per propria volontà o per esclusione, finisce comunque per sprofondarci in quella rete dalle maglie invisibili.
E la scuola? Impotente come le famiglie. Anche il professore più attento non può che rammaricarsi dello studente che, chissà, altrove, in un altro quartiere sarebbe stato forse il primo della classe. Tutte le energie, tutti gli obiettivi, sono messi al servizio del Sistema e del desiderio di appartenere a qualcosa di più grande della singola persona, del singolo, misero, destino. Questa è la paranza: una prospettiva di Gestalt.
E la scuola per apprendere si divide tra a strada e Nisida, il carcere minorile, dove prima o poi si deve passare per formarsi, per completare il curriculum e acquistare credibilità. Tanto non è mai tempo perso, una volta usciti da lì c’è tutto il tempo per recuperare. Il tempo dell’eterno presente, quello in cui dietro l’angolo c’è la morte messa in conto come premessa esistenziale. Se hai paura di morire non vivi, diventi un ostaggio. E a Forcella gli unici ostaggi sono quelli dei latitanti o dei boss agli arresti domiciliari. Tutto il resto deve essere movimento, fluidità, corsa per non rimanere mai a pensare soli con se stessi.
La felicità, poi, a ben vedere, non è mai l’obiettivo o la condizione di nessuno dei bambini della paranza. La loro infanzia è stracciata da quegli stessi genitori che dimenticano che l’infanzia è un’età in cui non tutto deve essere detto e urlato, e che ci sono verità che non vanno necessariamente spiattellate ai bambini. Tutto viene detto, gridato, davanti a tutti. E così i bambini non sono mai bambini, ma passano dalla culla all’età adulta in un baleno, a sei anni sono uomini e donne in miniatura. Nei loro occhi si intravede solo ricerca frenetica e spasmodica di successo e apparenza, ma mai di felicità, perché la felicità ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi, come poetava De André. Sono solo alcuni gli sprazzi in cui un misero tentativo di felicità, un velo strappato di infanzia, riemergono, per esempio allo zoo quando i bambini “in missione” per un attimo si incantano davanti al leone. Ma è solo un attimo, che fugge via rapidamente. Non le paranze, non le famiglie, non i boss sono felici. L’infelicità regna sovrana, aggrappandosi alla ruggine della miseria e dell’impotenza.
Il nuovo di libro di Saviano è un libro in cui si ride e anche tanto, ma amaramente, perché non si perde mai la consapevolezza di star leggendo qualcosa di estremamente reale. Ci si affeziona a quei bambini, ma proprio come avviene in Gomorra la serie, non si può amare nessuno di loro, perché non appena ti lasci prendere dalla tenerezza uno qualsiasi compie l’atto più vile, misero e truce possibile. Non si può parteggiare per nessuno, perché il male è confuso col bene e non si slega più.
Cosa ha a che fare tutto ciò con il nostro mondo? verrebbe da chiedersi. Tanto, tutto. La liquefazione dei valori, la dinamica del tutto e subito, il corroborante effetto dei social network, la spersonalizzazione delle istituzioni educative sono forse argomenti che non ci appartengono, che non si sono già lungamente affrontati e senza esito? I nostri figli, nipoti, fratelli non crescono forse a pane e You Tube? Il cyber bullismo non è forse l’ultimissima piaga della crescita in una società che non sa e non può rimanere ferma per un solo attimo? Il mutismo delle famiglie non è per caso uno dei problemi fondanti del nostro mondo? Padri che non hanno tempo, madri lasciate sole, figli fatti tanto per farli o perché “è arrivato il tempo”, cellulari, playstation e scarpe da ginnastica come status, modi di impiegare il tempo, o semplici surrogati affettivi. Famiglie in cui genitori e figli non si conoscono. Società dove lo Stato è solo una parola sul vocabolario, un’idea, mai un fatto. Privilegiati pochi e dominanti, sfortunati tanti e dominati. In due parole: fottitori e fottuti.
Nun s’adda fà professione ′e pietà.
Valeria Susini
Notice: Undefined variable: user_ID in /home/kimjcgib/public_html/wp-content/themes/zox-news-childfemms/comments.php on line 49
You must be logged in to post a comment Login