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Lo Zibaldone

La nuova scienza dell’universo incantato. Un’antropologia dell’umanità (quasi tutta)

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di Francesco Roat

 

L’ultimo libro dell’antropologo statunitense Marshall Shalins (1930-2021), scritto poco prima della sua scomparsa, ci invita sin dalla prima pagina a prendere in considerazione quella che lui indica come una “radicale trasformazione dell’ordine culturale che ebbe inizio circa 2500 anni fa”. Essa, a suo avviso, rappresentò un nuovo modo di interpretare le divinità, che sino ad allora erano state concepite quali immanenti rispetto alla realtà fenomenica; mentre giusto e solo successivamente iniziarono ad essere collocate in una dimensione trascendente.

In parole povere: prima di quel grande mutamento gli dei abitavano il mondo; dopo non più, risiedendo in un altro-mondo: sopra di noi o lontano da noi terrestri. Tale metamorfosi ‒ nell’ambito religioso, ma non solo ‒ segnò il trionfo della trascendenza e del soprannaturale; però anche la sia pur graduale ma fatale emancipazione dell’uomo dalle figure numinose: via via nei secoli sempre più lontane dalla vita e dalla gestione di essa, ritenuta ‒ specie oggi, nell’Occidente disincantato e in tutti i Paesi occidentalizzati ‒ solo ambito di spettanza umana.

Ciò nonostante il cosiddetto immanentismo non è scomparso del tutto; esso è ancora presente presso varie popolazioni ‒ chiamate, con aggettivo sprezzante, primitive ‒ nelle Americhe, in Asia ed in Africa. Secondo le stime ONU, infatti, nel nuovo millennio i popoli indigeni contano circa 500 milioni di persone, presenti in 90 nazioni diverse. Tenuto poi conto che, ai giorni nostri, un po’ ovunque sul pianeta si crede ancora nel malocchio, nella stregoneria, negli amuleti scaramantici e nella magia, una certa forma di spiritualità immanentistica permane, eccome.

Ciò che comunque, secondo l’autore, più differenzia il nostro comune modo di pensare all’insegna del disincanto e quello delle società che si ispirano a modelli anteriori alla fatidica trasformazione epocale di 2500 anni or sono è che, in queste, la cultura ‒ nel senso più ampio del termine ‒ non è prodotta dagli uomini, bensì: “Essi la ricevono, insieme alle regole che la fanno rispettare e il potere che la realizza, a opera di dèi o antenati che hanno creato la cultura nei tempi primordiali e la governano nel tempo presente”. Ma non solo: tali meta-persone ‒ siano essi spiriti, esseri divini, demoni, revenants o fantasmi ‒ sono degli attori onnipresenti nel mondo accanto agli umani, che possono comunicare e persino vivere con loro.

Quindi in quello che il nostro antropologo chiama poeticamente un “universo incantato” non esiste davvero una netta distinzione tra (i nostri concetti di) naturale e soprannaturale; come a dire: non trova posto nemmeno l’idea di un altro mondo, giacché le meta-persone, essendo immanenti e presenti, costituiscono gli elementi che vengono a formare il mondo. Ed in un certo senso persino le donne e gli uomini sono già ‒ qui ed ora ‒ spiriti, poiché non esiste vera e propria distinzione tra anima e corpo, immaterialità e fisicità, sacro e profano. In quest’ottica perciò tutto quanto, financo un sasso, è animato e vivente.

Interessante è pure constatare che, per queste popolazioni oltraggiosamente dette primitive, gli esseri divini superiori sono al contempo creatori e distruttori, benefici e malefici, anche se potremmo forse meglio considerarli al di là del bene e del male. Manca qui, dunque, l’atteggiamento cultural-moralistico tipico delle religioni monoteistiche, le quali contrappongono Dio al diavolo, in un rigido dualismo/schematismo assai poco convincente. Anzi, ogni cosa del/nel mondo, è intesa ‒ con equilibrato distacco ‒ come naturale, come bene o come non mai completamente deprecabile; in una visione unitaria entro cui tutto è spirito/divino.

Marshall Shalins, La nuova scienza dell’universo incantato. Un’antropologia dell’umanità (quasi tutta), Raffaello Cortina Editore, 2023, pp. 210, euro 21,00.

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