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Lo Zibaldone

La luce nell’anima

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di Francesco Roat

“C’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio. Tutto ciò che il tempo e lo spazio hanno mai toccato, mai è giunto a questa luce. E in questa luce l’uomo deve permanere”. Dovrebbe bastare questa brevissima citazione iniziale, tratta da un’antologia di testi del più grande mistico medioevale: Meister Eckhart (a cura di Marco Vannini, massimo studioso italiano ‒ nonché traduttore delle opere tedesche e latine ‒ del suddetto Maestro teutonico), a sospingere il lettore ad acquistare questo libro davvero pregevole che ospita ben venticinque sermoni eckhartiani, alcuni dei quali finora inediti nella nostra lingua.

Sintetizzando oltremodo si potrebbe asserire che l’attualità del Meister consista nell’aver sottolineato come gli esseri umani non siano costituiti solo dall’ambito somatico e psichico ma pure, anzi eminentemente, da quello pneumatico ovvero spirituale. Con una felice metafora il Nostro chiama luce lo spirito che equivale a Dio ed al contempo all’anima, in quanto nel fondo di essa è possibile realizzare la vacuità ove Dio possa dimorare. Così: “Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che esso ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo proprio fondo, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti nessuno può conoscere Dio se prima non conosce se stesso”.

Per farlo tuttavia è indispensabile liberarsi dell’inessenziale; occorre seguire il monito di Plotino: Afele panta (Togli via tutto). Il che comporta il distacco (abegescheidenheit), in primo luogo da se stessi, dall’amor proprio (l’antica philautia) e da ogni forma di appropriazione (eigenschaft), facendo il vuoto dentro di sé ed emancipandosi da attaccamenti e avversioni, egoità, volontà e velleità. Si tratta, in parole povere, di non pretendere più nulla, né cercare più nulla. È necessario inoltre disporsi ad una accettazione piena degli eventi (simile all’amor fati stoico) o, per dirla con Simone Weil, a non deprecare la necessità. Ma l’affidarsi pienamente a Dio fa sì che ogni cosa dolorosa venga equanimemente colta come non solo negativa, e l’accogliere di buon grado le (presunte) avversità comporta un atteggiarsi magnanimo nonché amorevole verso tutti gli altri (vedi l’agape cristiana).

Per questo Eckhart ha l’ardimento di scrivere persino: “prego Dio che mi liberi da Dio”. Si tratta di liberarsi da idoli, credenze, mitologie e teologie: cose sempre fuorvianti e che propongono immagini del divino quale altro rispetto a noi. La succitata frase provocatoria non implica quindi un mero ateismo ma esprime/riassume piuttosto la rinuncia ad ogni tentativo di appropriarsi concettualmente di Dio, ed in secondo luogo suggerisce l’opportunità d’una rinuncia ulteriore: quella di ottenere la pur suprema realizzazione spirituale: brama ancora e sempre egoica, narcisistica, deleteria.

Come nota Vannini nella sua puntuale introduzione: “Essenziale è comprendere come ad un «io» determinato, nato nel tempo e destinato a perire nel tempo, ovvero questo corpo e questa psiche che mi accompagnano variamente nel tempo ‒ non dirò che «sono», perché ad esso non inerisce l’essere ‒ fa riscontro un «io» più vero, un «io» spirituale, che è fuori del tempo, nell’eterno, nell’Uno, e questo, propriamente questo, io sono”. Occorre quindi morire a sé stessi (è la cosiddetta mors mystica) per poi rinascere spiritualmente, come ebbe a dire Gesù a Nicodemo (Gv 3, 1-8). Ciò è altresì il paolino uomo nuovo che ha da sostituire quello vecchio.

Occorre dunque stare/sostare nel fondo (grund) dell’anima ‒ che è poi un ab-grund: un vero e proprio abisso ‒ in cui non vi sono più distinzioni, ma dove l’io avverte d’essere unito a Dio. In tale non-luogo è possibile quella che i Padri del deserto chiamavano la hesychia: la cessazione di ogni inquietudine, la vera pace/beatitudine. Mi sembra doveroso accennare ‒ come fa qui Vannini ‒ pure all’eckhartiana ed ineffabile concezione del nulla divino: “Questo nulla, assoluta quiete, è ‒ potremmo dire ‒ il «luogo» del fondo dell’anima. Qui è scomparso anche «Dio», giacché l’anima deve andare oltre Dio, qualsiasi sia il suo nome”. Eppure, seguita il curatore dell’antologia: “sappiamo bene di essere per così dire nel paese del reale, dove niente manca, per cui si pensa proprio ad una continua, tranquilla presenza di Dio”.

Tornando ancora una volta alla metafora della luce come parola allusiva rispetto all’indicibile dimensione divina, potremmo dire che detta immagine rappresenta giusto il tentativo di descrivere l’indescrivibile di quest’ambito spirituale, e di testimoniare la possibilità che ci è data di cogliere la presenza del divino in noi. Tuttavia la mistica autentica, va precisato con risolutezza, ha ben poco a che fare con visioni o percezioni paranormali. Lo dice in modo chiaro e forte Eckhart: “se si vede qualcosa o se qualcosa si introduce nella conoscenza, quello non è Dio, per il motivo che egli non è né questo né quello. Chi dice che Dio è qui o là, non dovete crederlo. La luce che è Dio brilla nelle tenebre (cfr. Gv 1,5). Dio è una vera luce: chi deve vederla deve essere cieco e tenere Dio lontano da ogni «qualcosa»”.

Meister Eckhart, La luce dell’anima, introduz., traduz. e note di M. Vannini, Lorenzo de’ Medici Press, 2024, pp. 186, euro 18,00

 

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