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La consolazione della filosofia
di Francesco Roat
Severino Boezio (475/477 – 525) nasce a Roma al tempo della caduta dell’impero romano d’occidente e, dopo la morte del padre, viene adottato da un influente patrizio (Simmaco): legato sia al re dei Goti Teodorico ‒ divenuto in breve tempo padrone dell’Italia centro-settentrionale ‒ sia all’imperatore romano d’oriente. Ciò permette a Severino di frequentare l’ambiente della più elevata nobiltà senatoria e di ottenere fin dalla più giovane età incarichi di tutto rilievo, come quello di console e successivamente di magister officiorum (altissimo funzionario amministrativo) alla corte di Teodorico, di cui sarà a lungo apprezzato consigliere. Ma non solo. Boezio, colto intellettuale e teologo, prende pure a tradurre in latino numerose opere filosofiche greche, anche nella speranza di far rientrare la cultura e la politica teodoriciane nel solco della tradizione romana.
In seguito egli è tuttavia accusato dal sospettoso re goto di alto tradimento e, senza neppure essere ascoltato/difeso in tribunale, verrà tratto in carcere e quindi giustiziato. Durante la prigionia però Boezio scrive il De consolatione Philosophiae (La consolazione di Filosofia), un trattato filosofico-moralistico che conoscerà nel corso dei secoli successivi una gran fortuna, divenendo una delle opere più popolari e influenti dell’intero Medioevo. Recentemente questo testo esemplare è stato riproposto ai lettori da Einaudi ‒ tradotto in modo pregevole/scorrevole da Barbara Chitussi, con una vivace introduzione di Maria Bettetini e assai puntuali di note a cura di Giovanni Capatano ‒ in un’accurata veste editoriale con testo latino a fronte: scelta che certo risulterà gradita ai lettori più esigenti.
L’avvio di quest’opera, tutta giocata attraverso una felice alternanza di prosa e versi, è alquanto teatrale. A Boezio incarcerato appare all’improvviso una donna: “dal colorito vivace e dall’inesausto vigore, per quanto così carica d’anni”. Si tratta inequivocabilmente di Filosofia, la veste della quale riporta sull’orlo in basso il ricamo della lettera greca pi (che allude alla prassi) ed in alto quello della theta (che allude alla teoresi, ma pure a thanatos: alla morte). Ha inizio così un colloquio fra l’antico discepolo di Filosofia e la sua maestra. Ma questa non si comporta affatto da consolatrice; anzi, imperiosa, quasi non riconoscendolo più, prende a rampognarlo nonostante questi abbia gli occhi: “inondati di lacrime”. Infatti: “è tempo di porre rimedi” ‒ diagnostica impietosa ‒ “non di lamentarsi”. E propone una cura cara ai mistici di ogni tempo e luogo: “Non sperare nulla, non temere nulla”.
Se inoltre Boezio si lamenta con lei per la volubilità della fortuna, Filosofia ha buon gioco nel rispondergli che, se prima lui ha accettato di buon grado i doni di tale “cieca divinità”, per qual motivo poi non accettare che essa abbia smesso di concederglieli? Del resto, come aveva insegnato Eraclito, panta rhei, tutto scorre e non serve lagnarsi del mutamento incessante d’ogni cosa, poiché: “È certo e fermo per eterna legge / che nulla di ciò che è nato resti fermo”. Ma non solo: qualsivoglia avvenimento non risulta di per sé positivo o negativo; la nostra valutazione infatti dipende appena dal punto di vista che assumiamo e da come ci poniamo nei confronti di tale situazione. Così: “non esiste nulla di infelice, se non lo si ritiene tale, e che, viceversa, beata è la sorte di coloro che la sopportano con animo sereno”.
Da qui la domanda cruciale di Filosofia, posta non solo a Boezio ma pure ai suoi lettori: “Perché dunque, o mortali, cercate all’esterno la felicità posta dentro di voi?”. Per non parlare dell’invito ad un atteggiamento/comportamento equilibrato e frugale, in quanto: “è vero il detto secondo cui hanno bisogno di moltissime cose coloro che ne posseggono moltissime e che viceversa hanno bisogno di pochissimo coloro che misurano al loro abbondanza secondo la necessità della natura e non secondo la superfluità dell’ambizione”. Boezio sembra convincersi delle argomentazioni di Filosofia, secondo la quale essere felici non dipende da piaceri, proprietà, ricchezze, fama, gloria e potere, e le chiede perciò risoluto: “mostrami senza esitazione quale sia la vera felicità”. È allora che, mediante tre bei versi, essa principia col rispondere: “Tu pure, che prima hai guardato i falsi beni, / inizia a ritrarre dal giogo il collo: / entreranno allora nell’animo i beni veri”.
Mi fermo però qui, lasciando al lettore la possibilità e la soddisfazione di scoprire da sé in cosa consista e come si raggiunga la vera beatitudine per Boezio. Dirò solo che nel trattato in questione si affronta pure il tema del male (e del perché della sua presenza nel mondo), quello del caso e altresì del cosiddetto libero arbitrio, dopo aver discusso a lungo dei quali Filosofia cesserà il dialogo col suo interlocutore. E Boezio, privo della libertà materiale ‒ per quanto provvisto di quella intellettuale ‒ rimarrà nuovamente da solo, in attesa dell’esecuzione e della fine. Anche se va pur ricordato, con le parole di Maria Bettetini (tratte dalla sua introduzione al volume), come davanti alla morte: “tutti sono sempre stati, e sempre saremo, se pur consolati, soli”.
Severino Boezio, La consolazione di Filosofia, Einaudi, 2023, pp. 283, euro 12,00

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