Lo Zibaldone
Io sono Platone
di Francesco Roat
Raffaello Cortina Editore ha racconto alcuni saggi di Adriana Cavarero sul più celebre antico filosofo ateniese ‒ scritti in un periodo di circa quarant’anni – ed ha individuato giusto in Platone il titolo del volume. Il breve testo con cui il libro inizia è uno scritto giovanile; si tratta di una riflessione rivolta soprattutto agli addetti ai lavori intorno al tema: Platone e la democrazia. Ma è forse trattando d’un altro contributo cavareriano qui raccolto ossia La musa inviolata: Platone contro Omero ‒ come nota Olivia Guaraldo nell’Introduzione ‒ che è possibile gettare uno sguardo chiarificatore sull’annoso rapporto che Cavarero intrattiene con colui il quale tradizionalmente è ritenuto l’inventore del termine filosofia.
In esso l’autrice ‒ sulla scia di Hannah Arendt ‒ si schiera nettamente dalla parte di Omero; e sempre all’insegna della filosofa tedesca sono le polemiche e decostruttive Note arendtiane sulla caverna di Platone: saggio riproposto sempre all’interno del volume, dove peraltro Cavarero sottolinea come i dialoghi della filosofia platonica, disseminati/contaminati da elementi mitici, siano tutto sommato aperti ad un dire polivalente e sempre giocato tra logos e mythos (termini del greco antico che possono essere tradotti entrambi col vocabolo italiano: parola o discorso).
Dei dieci testi della nostra autrice quello che, a mio avviso, risulta più stimolante è dedicato a (e intitolato) Diotima, ovvero la celebre sacerdotessa di Mantinea ‒ straniera, per gli ateniesi dell’epoca ‒ esperta nelle cose amorose, che Socrate cita e della quale egli riferisce nel dialogo platonico Simposio (altrimenti detto Convito) la concezione filosofica, in realtà platoniana, d’un amore per la sapienza inteso ‒ sintetizza Cavarero ‒: ‟come Eros e ascesi conoscitiva, come contemplazione dell’idea attraverso il desiderio della bellezza immortale”.
La domanda che si/ci pone l’autrice è tuttavia la seguente: perché il maschilista Platone fa parlare indirettamente una donna: estranea ai simposi: luoghi del filosofare da cui le femmine erano escluse? Nella ampia risposta a tale quesito, Cavarero prende l’avvio dalla considerazione/stigmatizzazione polemica che: ‟la fecondità dell’amore omosessuale maschile è la tesi centrale del Simposio”; mentre quello eterosessuale, che ha il suo fine fuori di sé (nella riproduzione della specie), viene svalutato/considerato meno stimabile; come la maternità e l’ambito del femminile.
Secondo quanto fa dire Platone a Diotima per bocca di Socrate, al pari dei filosofi ‒esclusivamente maschi ‒, il demone Amore (Eros) ama la sapienza (sophia) ed è desideroso del bello: aspirazione che finisce per equivalere a quello del bene ossia, puntualizza Cavarero, al desiderio: ‟di essere felici e di stare presso la bellezza”. Insomma ogni mortale ambisce ad essere per sempre (aei einai); ma se dalla prospettiva della mera fisicità si cerca di ottenere ciò tramite la generazione della prole, da quella spirituale ‒ quantomeno a detta di Platone ‒ migliore risulta l’esser fecondi nell’anima e produrre dialoghi filosofici, in una sorte di mimesi della maternità vera e propria. Così: ‟è soprattutto la filosofia che Diotima vuole attribuire al parto degli amanti omosessuali”; un amore del bello-buono a cui tenderebbe appunto il saggio philosophos.
Risultato di tale concezione: ‟una vita corporea misurata sul caduco e una vita della mente capace di albergare presso l’eterno”. Il che, per Cavarero, significa soprattutto l’intollerabilità platonica nei confronti della umana finitudine e la svalutazione della vita terrena, della nascita e della maternità: rea di riprodurre mortali; quando invece i filosofi genererebbero pensieri che: ‟pretendono di accedere a ciò che è eterno, senza nascita alcuna”. Giusto qui starebbe l’apice della mimesi della potenza materna/femminile ‒ negata ai maschi ma da essi bramata/sublimata ‒: nel credere di far venire alla luce quell’‟ingenerato”, di cui è pregna l’anima noetica, che vive eternamente, se non altro all’interno del discorso dei filosofi.
Non sarà difficile, a tale proposito, nota ancora Cavarero ‒ trovare chi sia disposto a prendere atto di come, in Occidente, sia il sapere che la politica siano sempre stati come una specie di ‟club maschile” al quale le donne non hanno potuto mai accedere facilmente o appena marginalmente. D’altronde l’autrice fa notare al lettore come l’immaginario autarchico dell’uomo greco coevo di Platone sia antichissimo. Non per nulla Pandora (la prima donna) fu un dono punitivo inviato ai maschi dagli dei. Dal suo mitico vaso infatti uscirono tutti i mali, come da quell’altro vaso fisiologico ‒ l’utero ‒ escono dei figli destinati alla caducità, al male estremo della morte.
Appare dunque necessaria, a questo punto, una ritematizzazione della morte e della vita tramite un discorso davvero filosofico che destrutturalizzi l’illusoria centralità di un io astratto, mentale e decorporeizzato: frutto infecondo della metafisica. Per riconciliarsi con la nascita che, lungi dal venir concepita all’insegna dell’heideggeriano essere per la morte, venga vista come precondizione per una vita/esistenza che, a ben vedere, mai nasce o muore ma ininterrottamente si traduce in una serie di incommensurabili nascite e morti singole entro un mondo/universo che esisterà pur sempre anche con la scomparsa di ogni individualità.
Adriana Cavarero
Platone,
Raffaello Cortina Editore, Milano
pp. 200, euro 19,00

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