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Interviste

Intervista a Guido Giarelli

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di GABRIELLA CICCOPIEDI

Guido Giarelli, fondatore della Società Italiana di Sociologia della Salute, pubblica per Rubbettino Editore il saggio Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata. Un approccio scientifico, e al tempo stesso comprensibile anche da chi non è del settore, del tema della sofferenza e della “dimensione del negativo” nella realtà contemporanea, tracciando una storia della loro evoluzione in accordo con il progredire della società e dei bisogni dell’uomo.

Guido Giarelli, fondatore della Società Italiana di Sociologia della Salute, pubblica per Rubbettino Editore il saggio Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata. Un approccio scientifico, e al tempo stesso comprensibile anche da chi non è del settore, del tema della sofferenza e della “dimensione del negativo” nella realtà contemporanea, tracciando una storia della loro evoluzione in accordo con il progredire della società e dei bisogni dell’uomo.

Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata è adatto anche a chi si approccia per la prima volta a un saggio di sociologia? Direi proprio di sì, purché abbia la curiosità intellettuale di scoprire cose non scontate e accetti di mettere in discussione il senso comune consolidato.

Nel suo saggio tratta di vari tipi di sofferenza (ecologica, sociale, biopsichica ed esistenziale) in relazione al rapporto che si instaura tra l’uomo e diversi fattori esterni e interni. Cosa riserverà il futuro all’essere umano? L’uso sempre più invasivo della tecnologia, la crescente sensazione di solitudine e di alienazione, e la fuga da tutto ciò che comporta una debolezza, una diversità e in ultimo dalla morte stessa, potrebbe arrivare a cancellare l’umanità nella sua essenza e a snaturarla, come teorizzato da alcuni sociologi? È indubbiamente un rischio reale, se dovesse continuare a prevalere quell’orientamento antropocentrico e tecno-scientifico di progresso illimitato che ha dominato la cultura occidentale moderna: oggi esso si esprime soprattutto nel movimento transumanista che con il suo folle programma di miglioramento eugenetico (il “giocare a fare Dio”) riduce la persona a “biocapitale” e rappresenta l’estrema propaggine di quella che Jonas chiama la “fallacia tecnicistica” (“si deve fare tutto ciò che si può fare”) ed il “dispotismo antropocentrico” (la logica del dominio della specie umana sulle altre specie animali e sulla natura)propri di tale cultura. Confido tuttavia che la logica dell’ambivalenza che domina la realtà in generale e la condizione umana in particolare possa prima o poi portarci a riscoprire quell’antica saggezza che ha caratterizzato praticamente tutte le culture umane non occidentali (e anche buona parte di quella occidentale prima della modernità), caratterizzata dalla concezione del “limite” che noi abbiamo smarrito nell’illusione che fosse possibile un progresso indefinito, in funzione del quale abbiamo anche ricostruito la storia dell’umanità in chiave evoluzionistica.

Il suo è un saggio molto corposo, ricco di esempi, di citazioni e di riflessioni interessanti. Quali quesiti pone la sua opera, e che soluzioni cerca di prospettare? Il quesito fondamentale da cui parte il mio lavoro è relativo all’origine di quella sofferenza diffusa che caratterizza la società contemporanea, di quel malessere o “male di vivere” (per dirla con Pavese) che assume le forme fenomenologiche di ciò che descrivo come sofferenza sociale, esistenziale, biopsichica ed ecologica. L’interrogativo che mi pongo è quindi se tali diverse forme di sofferenza non siano altro che l’espressione di quella “dimensione del negativo” che la nostra società ha rimosso nella convinzione che la potenza del positivo costituisse l’unica dimensione del reale. Cerco quindi di offrire una risposta tramite un modello di analisi connessionista che mi consente di risalire ai fattori che sono all’origine della bidimensionalità ambivalente della condizione umana: quello della sociabilità umana(soggettività-sistema sociale) e quello dell’ambiente (natura interna biopsichica-natura esterna ecologica). Arrivo così a identificare le componenti fondamentali di quella dimensione del negativo che caratterizza l’ambivalenza della condizione umana. La risposta al problema iniziale che prospetto è allora quella di riscoprire la necessità di una “cultura del limite” per saper affrontare i diversi tipi di sofferenza senza false illusioni ma anche nella piena consapevolezza della possibilità di poter così evitare le sofferenze inutili.

L’ambito di studio della sociologia è la società umana, e il rapporto tra individuo e gruppo sociale. Nel suo saggio analizza come questo rapporto sia conflittuale, soprattutto da quando la società si è evoluta dal punto di vista industriale e tecnologico, da quando l’uomo è divenuto un ingranaggio asservito alla logica dell’accumulazione capitalistica. Quanto la sociologia, e in particolare il suo saggio, può aiutare a far comprendere all’uomo i suoi limiti e le sue potenzialità? Quanto può far riflettere sulle scelte e le direzioni che sta prendendo, e in che posizione questa disciplina si colloca nell’era della globalizzazione? Quello indicato è l’ambito tradizionale della sociologia nei primi due secoli della sua storia (‘800 e ‘900), il cui oggetto si è limitato a privilegiare ora l’una (la soggettività) ora l’altra (il sistema sociale) delle due polarità dell’ambivalenza del sociale. Per comprendere meglio la totalità della condizione umana bisogna prospettare un ampliamento dell’ambito sociologico sino ad abbracciare anche l’ambito dell’ambiente (interno ed esterno) che tradizionalmente è stato considerato di esclusiva pertinenza delle scienze naturali e di quelle fisico-matematiche, secondo una logica fondata sulla scissione cartesiana mente/corpo. Volendo riconoscere limiti e potenzialità della condizione umana, abbiamo bisogno di ricomporre per quanto possibile tale frattura tra le due culture (umanistica e scientifica) al fine di arrivare a disegnare un umanesimo scientificamente fondato. In tale ottica, la dimensione del sociale è da considerarsi come una delle diverse dimensioni multiple del reale le cui interconnessioni in relazione al sociale diventano il nuovo oggetto della sociologia del XXI secolo.

Se potesse disporre di una macchina del tempo, quale dei sociologi di cui parla nel suo saggio vorrebbe incontrare, e di cosa discutereste? Forse Max Weber, la cui acuta sensibilità umana e penetrante capacità intellettuale, come spesso accade, egli ha dovuto pagare caro in termini di salute psichica. Mi piacerebbe discutere nel suo salotto berlinese di fine ottocento, in cui riceveva la migliore intellighenzia tedesca dell’epoca, del problema dei limiti della razionalità umana e di ogni processo di razionalizzazione sociale: il che ci porterebbe inevitabilmente a riflettere sui limiti della nostra capacità di conferire senso alla realtà attraverso quella “sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accadere del mondo”, come egli definisce la cultura umana, quale unica possibilità di sfuggire alla “gabbia d’acciaio” in cui rischiamo oggi più che mai di rimanere rinchiusi.

Si occuperà ancora della sofferenza esistenziale e del rapporto dell’uomo con la dimensione del negativo? In che direzione si stanno evolvendo i suoi studi in merito? Pensa di pubblicare un altro saggio che tratti di questi argomenti? Penso proprio di sì, la “sociologia del negativo” che ho cercato di inaugurare è ancora un campo tutto da esplorare e spero di riuscire ad offrire ulteriori contributi in questa direzione: dall’interconnessione dei bioritmi individuali con la vita sociale al problema della perdita di riflessività nella società digitale, dalla concezione del limite come confine del possibile sempre relativo, dinamico e storicamente determinato all’ambivalenza della condizione umana come forma di equilibrio omeostatico. Ma per ora, dopo questo volume che mi è costato due anni e mezzo di lavoro, penso che starò anzitutto ad osservare quali reazioni esso susciterà, sia dentro che fuori l’accademia.

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