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In viaggio bruciando le frontiere

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di Carlo Ottaviano

Cronaca – spiega il Nuovo De Mauro – è un resoconto giornalistico di argomento circoscritto”. Il dizionario on line su repubblica.it alla stessa voce aggiunge che “la storia è un’interpretazione della cronaca”. L’una e l’altra definizione sono corrette e complementari e sono la verità di questi giorni, mesi, anni in cui i giornali ci hanno mostrato le strazianti immagini dei morti allineati sulle spiagge delle nostre vacanze. La cronaca già storia del dramma dell’immigrazione è però simile a un fiume carsico che appare e scompare anche in virtù dell’incombere di altre notizie – terremoti, maltempo, politica, perfino Sanremo o partite di pallone – più fresche, chè di questo giustamente si nutrono i giornali. Poi arrivano un documentario come Fuocoammare o un libro come Harraga e le parole, i suoni e le immagini diventano arte, la cronaca ancora più storia e quelle parole suoni e immagini ti si appiccicano addosso, lasciando un segno indelebile nella mente di chi guarda.

Harraga ci mostra quel che non vediamo – il prima – e ci svela il dopo che non fa più cronaca. Giulio Piscitelli, fotografo napoletano, ha speso sei dei suoi migliori anni (dai 28 ai 34) per raccontare con le immagini e un diario scritto le rotte dei migranti che provano a entrare in Europa. Lo ha fatto nel Mediterraneo orientale e in quello occidentale, imbarcandosi in Tunisia per raggiungere le coste italiane, documentando le enclave spagnole di Melilla, i viaggi verso Lampedusa, i profughi del Corno d’Africa che attraversano il deserto, i siriani, gli iracheni, gli afghani che approdano sulle isole greche nella speranza di raggiungere l’Europa.

Harraga, il titolo, è un termine dialettale arabo che vuol dire “quelli che bruciano le frontiere”. Alessandro Leogrande, scrittore tra i più impegnati delle nuove generazioni, nell’appassionata introduzione scrive: “Bruciare le frontiere, varcarle, attraversarle, rimbalzare contro i muri eretti ai loro margini, eludere il controllo delle polizie, fidarsi di trafficanti che non si è mai visto prima e che spesso non parlano neanche la propria lingua, guardare il cielo stellato di notte e le ferite della terra di giorno e soprattutto soprattutto – fare gruppo con tutti quelli che bruciano insieme a te…”. Piscitelli ha trovato la giusta distanza – di testimone e sodale – nei viaggi della speranza, “riuscendo a restituire quella dimensione – complessa, mobile, stratificata – che in genere viene bandita dal racconto delle migrazioni”. Nelle sue immagini ci sono i corpi, principalmente gli occhi di chi sogna e guarda la frontiera.

Noi italiani ci siamo abituati a vedere in tv gli sbarchi, se abitiamo in Sicilia perfino a incrociare per strada i clandestini, a convivere con loro – siano pescatori imbarcati a Mazara, braccianti nelle serre di Santa Croce o sfruttati altrove – ma Piscitelli ce li fa sentire ancora più vicini. “Il suo – scrive ancora Leogrande – non è sguardo asettico che sovente riduce i viaggi e le frontiere a un freddo dato di fatto o, addirittura, a una questione di ordine pubblico”. Ci mostra gli immigrarti nei campi o mentre pregano e ci ricorda che “sognavano una vita e un lavoro al Nord

Europa, invece si sono ritrovati a raccogliere pomodori, schiavi nelle campagne del Sud. I neri qui sono davvero gli ultimi degli ultimi”. Vivono come viveva uno schiavo americano durante la segregazione razziale guadagnando 50 centesimi per ogni cassetta di arance raccolte con un orario ben più lungo delle otto ore di legge. Ecco “il futuro” che aspettavano di trovare, il sogno tanto agognato.

Le cronache ci dicono delle terribili condizioni delle rotte nel Mediterraneo. Il reportage di Piscitelli ci mostra anche quel che c’è prima, iniziando dalle 1500, per difetto, persone morte negli ultimi anni nel Sahara, percorso obbligato verso le basi di partenza. E’ forse solo grazie alla presenza del testimone napoletano che il ragazzo bengalese, fotografato morente sulla sabbia, non viene abbandonato al suo destino e portato invece all’oasi di Kufrah. E a Piscitelli Shoora, bellissima sudanese, con in braccio la figlia neonata, confessa: “Devo scappare da qui, in un modo o nell’altro. Meglio tentare il mare rischiando di morire che vivere, sapendo che morirò senza speranza”. Prima di imbarcarsi passano i giorni, si moltiplicano le false partenze, si subiscono angherie di ogni genere fin quando finalmente arriva la notte in cui “la paura scende sulle spalle di tutti come una scimmia” e ci si ritrova in fila nell’acqua gelida e nera come il petrolio, “intorno solo il buio e la puzza di sterco”. Dall’altro lato del mare ci sono la Sicilia, l’Italia e l’Europa: “sembrano l’America vista dai nostri bisnonni all’inizio del secolo, che si imbarcarono verso un sogno simile a quello che hanno migliaia di giovani africani”. Ma il loro sogno non era destinato a bruciare.

Giulio Piscitelli

Harraga – in viaggio bruciando le frontiere

Contrasto Book

182 pagine, 39 euro

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