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Filosofia

Il pensiero e il silenzio

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di Francesco Roat

Molto e da molti autori è stato detto intorno alla dimensione senz’altro polimorfa del silenzio. Ma tra i vari testi, pure interessanti, che sono in circolazione intorno all’argomento, uno ‒ Il pensiero e il silenzio, di Santi Borgni ‒ mi sembra particolarmente istruttivo. Forse perché scritto da un uomo che dal 1984 si dedica alla meditazione e ad approfondirne il significato in un contesto laico, proponendo ritiri ‒ basati appunto sul silenzio (ma pure sul dialogo) ed ispirati alle opere di Krishnamurti ‒ presso la Casa della Pace: centro fondato da Borgni all’inizio del nuovo millennio in un luogo isolato nel Nord dell’Umbria.

Va subito precisato che, secondo l’autore, definire il termine silenzio quale mera assenza di suoni serve solo ad immiserirlo o meglio ancora a limitarne l’ambito ad un livello meramente fisico. In una prospettiva che potremmo chiamare interiore, il silenzio costituisce piuttosto il placarsi: «del rumore rappresentato dai pensieri, dalle preoccupazioni, dall’agitazione, dai desideri, dalla volontà di ottenere e raggiungere, dalla rabbia, dalla paura, e così via». Appare ovvio come una tale forma di silenzio risulti spiritualmente oltremodo significativa; forse indispensabile. Ma il problema è proprio come mettere a tacere tutto il chiasso mentale che ci assilla.

Tuttavia, già solo il desiderio di quiete, la stessa ricerca del silenzio può costituire un ostacolo non da poco alla sua realizzazione. La mente infatti non è come una radio, che si può spegnere con un tasto: le onde cerebrali trasmettono i loro messaggi invasivi pure o soprattutto quando cerchiamo di non dar loro ascolto. Come fare, quindi, se paradossalmente proprio allorché si vuol far silenzio non vi si riesce? Credo che la miglior risposta a tale interrogativo stia giusto nella definizione che Borgna dà del silenzio autentico. Esso «è la fine dell’io, cioè del ‘voler essere’ che si oppone a ‘essere’». Spieghiamola meglio: è proprio la continua brama, da parte dell’ego, di ottenere e controllare, a costituire il problema. O, se vogliamo, a far si che mai si dia puro silenzio dentro di noi.

Diamo nuovamente la parola a Borgni, a detta del quale: “Questo mondo rumoroso e caotico ha al suo centro il volere per se stessi, volere la sicurezza e il piacere, volere l’approvazione ed essere amati, volere il successo materiale o nelle relazioni»; ‒ però così ‒ «ogni suo movimento è destinato a implodere, a ritornare al punto di partenza con maggior frustrazione e delusione”. E veniamo al nocciolo della questione: silenzio si dà solo nell’accoglienza, nell’accettazione piena della realtà e nella fede in essa, per quanto ‒ di primo acchito ‒ possa sembrare negativa. Ma chi stabilisce se una cosa è negativa o positiva? Il pensiero: spesso nostro signore e padrone più che fedele servitore. Ciò non significa affatto rifiutare la ragione, bensì servirsene senza sottomettersi alla sua logica predominante.

Quando si parla di accettazione, ecco scattare in molti un subitaneo moto di rifiuto, sembrando loro che essa significhi soltanto un calar le brache, un arrendersi vile, una mancanza di intraprendenza. Però se ci riferiamo ad un qualche fatto inevitabile e/o irrimediabile, come ad esempio un evento luttuoso, ecco che l’accettarlo diviene invece momento sine qua non della sua corretta gestione. In quanto, rifiutarsi di accettare una perdita definitiva ‒ che non significa affatto non soffrirla ‒ comporta il consegnarsi fatalmente ad essa. Ma noi moderni purtroppo non siamo più abituati, come gli antichi, all’accettazione stoica della sofferenza. Noi rifiutiamo a priori persino l’idea che dal dolore possa emergere qualcosa che ci situi oltre il dolore, che implichi dell’altro e ci faccia accedere ad un altrove davvero impensato.

«C’è una differenza radicale», constata Borgni, «tra incontrare ciò che è anche quando è dolore e accettare le cose così come sono con rassegnazione. Incontrare ciò che è implica non sottrarsi, ma comprendere profondamente l’unità che esiste tra me e l’altro, l’unità tra quello che chiamiamo soggetto e oggetto». E, in seguito, precisa: «Non è un chiudersi in se stessi aspettando di aver risolto i propri problemi; al contrario, è incontrare la relazione, è comprendere intimamente che siamo relazione». Il silenzio è quindi apertura alla fattualità/profondità del momento presente, senza che essa venga anticipatamente condannata o assolta dall’intransigente tribunale del pensiero, solo volto a difendere l’egocentrismo.

Ne consegue che nella meditazione silente nulla viene respinto. Se giunge un pensiero, esso va accolto come un ospite, finché ‒ presto o tardi ‒ ci lascerà in pace. Se avvertiamo un disagio o un’insofferenza di fondo, vengano pure, serve a ben poco scacciarli; già l’osservazione imparziale basterà, col tempo, a metter loro fine. Ed il modo di condursi è semplice: assomiglia quasi ad una escursione senza meta nel verde d’una foresta. «Come nel camminare», suggerisce Borgni, «anche nel sedersi in silenzio non vogliamo produrre nulla, non sappiamo come avverrà, non abbiamo progetti utili. Sarà come passeggiare con calma su un sentiero sconosciuto».

Ciò è quanto l’autore chiama l’intelligenza del silenzio, la quale: «è libera e serena anche nella tristezza e nella difficoltà», in grado com’è di ascoltare senza pregiudizio alcuno tutto quanto esse hanno da dirci/insegnarci. Ancora: “L’incontro con il silenzio è l’incontro con una possibilità di indagine del tutto diversa dall’indagine che vive di definizioni, di analisi e di racconti. È una possibilità della mente umana che è rimasta sicuramente marginale ma che non è mai stata cancellata». Certo, essa ha bisogno del coraggio di osare nuovi percorsi, di esporsi senza difese preconcette rispetto a quanto la vita ci pone davanti. È il filosofico amor fati, l’accoglimento fiducioso e sereno del proprio destino ‒ qualunque esso sia ‒, e/o lo Ja, und Amen (il sì alla vita senza se e senza ma), caldeggiati da Nietzsche.

Altresì, caratteristica non marginale, silenzio equivale a incontro con il sacro, con il miracolo o mistero dell’esistere, con il divino ‒ per chi ama così definirlo ‒, con quella dimensione mistica grazie alla quale il pur sofferente Hölderlin osò affermare che fondamentalmente ‒ per i puri di cuori ‒ alles ist gut (tutto è bene), se solo per un poco smettiamo di proiettare sugli accadimenti la nostra interpretazione soggettiva. Questo perché osservare in silenzio le cose e aver fiducia in esse (anziché sospettare di esse) è attività gemellare. «Non la fiducia nel ‘lieto fine’», osserva condivisibilmente Borgni, «ma la fiducia che ogni evento sia un’occasione per imparare, per comprendere l’unità implicita in ciò che esiste (…), un tutto che non è fatto solo degli oggetti conosciuti».

Qualcuno potrà obiettare: il silenzio di cui parli a me pare invece vacuità, irrazionalità; infine assenza di scelta e di senso. Cerco di rispondere con l’autore: quel vuoto è pure la sorgente «del gesto spontaneo» e gratuito; quella messa in parentesi della ragione è apertura a quanto mentale non è; quel non-scegliere è l’auspicabile fine d’ogni atteggiamento egocentrico. Quanto al senso dell’esistere, svariati mistici hanno detto e ribadito che la vita è e ha da essere senza perché. E forse il silenzio, che corrisponde alla coscienza del nostro non-sapere, secondo quanto afferma Borgni in chiusa di volume:

«È uno spazio interiore libero dalla presunzione arrogante e dogmatica che quanto sappiamo sia, o possa essere, completo. La consapevolezza di non sapere è uno spazio silenzioso da cui si possono osservare il pensiero, gli eventi, il dolore. È uno spazio con cui pacificarsi: non sapere non equivale a fuggire o a sottrarsi alle sfide ma è, anzi, la possibilità di incontrare ciò che è con una mente serena, fresca, non appesantita dalle idee accumulate nel passato, e quindi di agire da questo spazio».

Santi Borgni, Il pensiero e il silenzio, Casa Ed. Astrolabio – Ubaldini, Roma 2023, pp. 191, euro 18,00

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