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Il corpo e lo spettro. Per una critica della modernità digitale
di Francesco Roat
Perché Paolo Zani, nel suo saggio sul venir meno della corporeità ‒ della presenza fisica ‒ nell’ambito comunicativo e nella realtà relazionale contemporanea, inizia col parlare del recente lockdown? Forse giusto in quanto tale inedita misura, oltre a scongiurare la diffusione del coronavirus, ha causato per molto tempo la messa al bando del contatto diretto/materiale e palpabile tra le persone. Purtroppo però minimizzare il più possibile la vicinanza fisica è equivalso non solo a raggelare i rapporti di prossimità ma persino a trasformare il nostro consueto e naturale modo di vivere.
Ed inoltre il lockdown ha messo tra parentesi tutta una serie di diritti che prima della pandemia ritenevamo scontati: uscire di casa, incontrarci con chi e dove volevamo, usufruire di servizi/luoghi di socializzazione, come teatri, cinema o discoteche. Ma, per salvaguardare la cosiddetta salute, la nostra libertà è stata fortemente limitata a colpi di dpcm. È però necessario chiedersi, come fa l’autore, in che consista davvero la salute o quantomeno se essa possa venir ridotta, in negativo, alla mera assenza di patologie e non vista piuttosto, in positivo, come un benessere costituito dalla più ampia possibilità di relazionarci: il che comporta frequentare altri umani, magari scambiandosi reciprocamene baci e abbracci.
La scelta improntata alla chiusura e alla separazione tra le persone è stata altresì presa soprattutto da tecnici quali i virologi e gli epidemiologi (a dirla tutta: spesso in disaccordo fra loro). Strano ‒ osserva condivisibilmente Zani ‒ come non siano stati consultati pure psicologi, economisti e, perché no, filosofi che forse avrebbero sollevato qualche dubbio sulla necessità di tali severe limitazioni della libertà personale, giudicate inevitabili. Per mesi, poi, il leitmotiv ribadito quotidianamente dai mass media è stato: “restare a casa”. Chi non l’avesse fatto rischiava la vita. Ma quale vita è un’esistenza da reclusi?
Tuttavia la morte fa paura. Oggi assai più che un tempo, quando era consapevolmente riconosciuta come ineluttabile. Ai giorni nostri, però, grazie ai progressi di scienza e tecnologia, molte malattie possono essere guarite e ciò ha indotto la gente a rimuovere il pensiero della propria finitudine/vulnerabilità, disconoscendo quanto ebbe a considerare Umberto Galimberti, ovvero che non tanto si muore perché ci si ammala, bensì ci si ammala perché si deve morire. Il lockdown peraltro si sarebbe risolto ‒ secondo Zani ‒ in un “evento catastrofico”.
Infatti: “Cos’e stato, il lockdown, per tutti coloro che vivono soli, e hanno trascorso in totale solitudine mesi interi della loro vita? Cosa per coloro che soffrono di patologie psichiatriche, e hanno visto le proprie difficolta crescere esponenzialmente?”; per non parlare di: “tutti coloro, donne, bambini o uomini, che vivono in situazioni famigliari complesse, magari con genitori o mariti violenti”. E non da ultimo: “Che vita e una vita in cui il musicista non può suonare, il ballerino non può ballare, il professore non può insegnare? Una vita senza i corpi, senza gli altri”.
Il modo di replicare da parte dei benpensanti a questi interrogativi è sempre stato e rimane uno solo: O.K., ma le misure di restrizione sono servite (servono) a proteggere la salute pubblica. Ma allora, si/ci chiede polemicamente Zani: perché il governo non proibisce di fumare? E subito replica ricordando che i danni del fumo impiegano anni per verificarsi: quindi il rapporto tra comportamento e malattia (o decesso) è meno immediato, al contrario di quanto sino a poco tempo fa accadeva con il coronavirus, che tanto spesso ha ucciso (e in misura minore uccide ancora) in breve tempo. Come a dire: per troppa gente preoccupa assai più il timore di un danno a breve che non la paura di uno a lungo termine.
A questo punto va tuttavia precisato che la riflessione sul lockdown era un modo per introdurre un tema di ben maggiore portata, ossia l’eccessivo significato che, nel Terzo millennio, viene attribuito alla “nuda vita”, cioè alla pura e semplice sopravvivenza, tendendo a mettere in secondo piano la modalità d’un essere al mondo che non deve ridursi appena alla mera esistenza biologica, quanto privilegiare piuttosto il suo ambito qualitativo. Dice bene Zani: “Ciò che davvero importa non è se si vive, ci insegano tutte le religioni del mondo, ma come si vive”. Purtroppo i Paesi cosiddetti occidentali stanno divenendo “società dell’anestesia”, in cui ciò che conta è non soffrire e tenere a distanza i problemi relazionali, anche a costo di rinunciare ‒ come fanno i giovani hikikomori ‒ persino a uscir di casa, limitandosi a muoversi in una pseudo-realtà digitale.
Ma gli hikikomori sono solo la punta di un iceberg che è davvero gigantesco, se pensiamo a quanto tempo giovani e meno giovani passano con computer, cellulari e TV, optando per un mondo iconico/immaginario, certo meno pericoloso di quello concreto. Ma non solo. Siamo altresì in attesa di realizzare il cosiddetto metaverso: un universo digitale entro il quale muoversi attraverso dei doppi virtuali, detti avatar. Tra non molto, prevede Zani, arriveremo così alla sostituzione della presenza corporea tramite una spettrale, che non soffre, non si ammala e non può morire. Prospettiva inquietante e disumana: da evitare senz’altro.
Paolo Zani, Il corpo e lo spettro. Per una critica della modernità digitale, Donzelli 2022, pp.160, euro 16,00
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