Lo Zibaldone
Il condominio, racconto di Francesca Di Silvio
Pubblichiamo di seguito Il condominio di Francesca Di Silvio, uno dei quattro racconti finalisti del premio Palazzolo.
Il condominio
Appena misi piede nell’atrio del palazzo, lessi la parola Sàlvati, scritta strusciando delle foglie sul muro bianco.
Era un avvertimento.
Io e mio marito eravamo talmente felici di aver trovato finalmente la casa giusta, che non badammo a quel chiaro avviso.
Nell’autunno traslocai i miei scatoloni dalla casa in campagna, in cui avevo vissuto con i miei genitori, al nuovo appartamento: spazioso e moderno, che profumava ancora di vernice fresca.
Ero soltanto a un passo dalla fine di tutte le mie fatiche che mio marito Amerigo dovette partire per lavoro. Andò in Kenya, per un mese, nel periodo più pesante della mia vita.
Le prime scatole che portai nella casa nuova contenevano i libri: la mia collezione di storie sui serial killer, dai quali prendevo le idee per scrivere; e i romanzi horror che mi appassionavano.
Gli scatoloni rimanevano in automobile per giorni – erano troppo pesanti per portarli al quarto piano senza ascensore tutti insieme. Notai i volti curiosi degli inquilini che sbirciavano all’interno della macchina.
Penseranno che sono un’assassina?
In fondo, con la mia innata calma e lo sguardo freddo, potrei passare benissimo per un serial killer.
Dopo aver traslocato i libri passai alle armi medievali che avevo collezionato durante gli anni: spade, sciabole, archi…
Tutto finiva nello studio dove passavo le mie giornate a scrivere.
Durante i lavori eravamo continuamente disturbati da un uomo di mezza età, che io e Amerigo chiamavamo il nero, a causa del colore dei suoi capelli.
Il nero era solito venire a suonare il campanello dicendoci di fare meno chiasso.
Ogni volta che ti voltavi lo trovavi davanti con il suo sguardo da mafioso.
Il nero, abitava con suo figlio, sotto al nostro appartamento.
Una notte il suono dell’allarme della mia automobile mi svegliò. Ero sicura che fosse la mia macchina perché l’allarme suonava insieme al clacson.
Scesi in fretta.
Lo sportello del passeggero era stato forzato ma il ladro non era riuscito a scardinarlo ed era andato via a mani vuote.
L’errore fu mio; avevo lasciato una cornice d’argento, con la foto mia e di Amerigo, nel sedile dietro il conducente e, la cosa, per un ladro, era allettante.
Una volta tornata a casa ero soddisfatta che l’antifurto avesse fatto il suo dovere e mi misi a letto.
Dopo qualche minuto, nel silenzio notturno, ho sentito diversi rumori provenire dal piano di sotto e ho capito che il nero c’entrava qualcosa con quanto accaduto.
Poggiai i vasi dei fiori vicino l’automobile e cercai le chiavi del cancello. Mi caddero al suolo, per poco non finirono nel tombino.
Le presi pensando che sarebbe stata una giornata fortunata. Una volta in casa sistemai le piante nel terrazzo, volevo un po’ di natura, che mancava vivendo in città. La fatica più grande era stare senza i miei tre cani e non potevo rinunciare anche a un angolo di verde.
Avevo dimenticato in macchina gli utensili per il giardinaggio, scesi quattro rampe di scale sentendo gli occhielli dei portoni dei vicini scostarsi per guardarmi.
Un’anziana donna, inquilina dell’appartamento sito al secondo piano, mi domandò se volevo prendere un caffè con lei. Accettai.
L’ingresso del suo appartamento era stretto, l’odore di naftalina invadeva la sala e le pesanti tende non facevano passare la luce del sole.
C’erano delle bomboniere impolverate su una credenza e delle bambole di ceramica nella poltrona.
«Si segga lì» disse indicandomi il divano.
Era morbido e di colore giallo scuro, alzai il cuscino che serviva ad abbellirlo e il tessuto era giallo chiaro.
Mi misi con il sedere in pizzo per non sporcare i pantaloni.
«È silenzioso questo stabile, non trova?» gridò dalla cucina mentre sentivo sbattere le tazzine.
«Per fortuna. Sono una scrittrice e il silenzio è ciò di cui ho più bisogno.»
«Una scrittrice?»
Dal tono avevo capito che non lo reputava un lavoro.
La donna non aggiunse altro e ci fu silenzio. Non la sentivo neanche più sbattere la porcellana.
Mi spinsi in avanti con il busto per vedere se stava ancora in cucina ma era sparita.
Silenzio.
Sentivo un ticchettio ma non capivo da quale angolo della casa provenisse. Era un rumore appena percettibile ma fastidioso.
Il pesce rosso nell’acquario non poteva essere… forse era l’acqua nei vecchi termosifoni di ghisa.
Guardai meglio quelle bambole di ceramica.
Una di loro apriva e chiudeva le palpebre e quel movimento faceva questo rumore.
Mi alzai di scatto e premetti con rabbia quegli occhi infernali.
«Le piace la mia collezione di bambole?» chiese la donna tornando con in mano una zuccheriera.
«Stavo giusto osservando la lavorazione di questa signorina dal vestito rosa.»
«Lei è Carmen. Ho dato un nome a ognuna di loro. Cara mia, lei è ancora giovane… non immagina la solitudine a cosa porti… la notte si rimane svegli… il giorno si cammina in strada, solo se è bel tempo…»
La donna si alzò per andare in cucina.
Il rumore del caffè che usciva dalla macchinetta aveva interrotto l’elenco delle cose che faceva da vedova.
«Non sono vedova.»
Come faceva a sapere cosa stessi pensando? Era una coincidenza? In fondo, era la prima cosa che chiunque si sarebbe chiesto, se era o meno vedova e da quanto.
La bambola riprese ad aprire e chiudere gli occhi.
L’avrei strangolata.
Mi voltai verso la donna quando udii il suono dei passi che annunciava il suo ritorno.
Sentii di nuovo un rumore provenire dalla direzione delle bambole, mi voltai e trovai la bambola dal vestito rosa col volto rivolto verso di me.
Mi alzai di scatto e andai verso la donna.
«La sua bambola si è girata! Com’è possibile?!»
«Cosa?!»
«Guardi lei stessa!»
La donna si avvicinò e prese la bambola per i capelli, la tirò su e mi accorsi che era tornata col viso al suo posto.
«Perché mi ha rotto Carmen?!»
«Io non ho fatto nulla!»
Quella dannata bambola aveva il viso lacerato.
«Vada via da casa mia!» mi urlò sulla porta mentre salivo le scale. «Lei e il suo maledetto appartamento al numero diciassette! Da quando è venuta a vivere qui le cose sono cambiate!»
La mattina ero solita sentire mio marito per telefono, ci chiamavamo solo due volte al giorno. Amerigo doveva girare dei documentari e durante i safari il cellulare non prendeva.
Volevo farlo stare tranquillo e quindi evitavo di raccontargli quello che mi capitava.
Uscii per andare a comprare dei ciclamini e accesi l’automobile.
La gomma era bucata e la carrozzeria tutta rigata. Dopo aver contattato un meccanico, mi confidò che il foro era troppo vicino al cerchione per essere stato causato da una buca nell’asfalto, quindi il danno era stato provocato da qualcuno, di certo con un cacciavite.
La gomma non si poteva riparare e doveva essere cambiata.
Adesso avevo un’altra spesa da affrontare, oltre quelle del restauro e dell’acquisto dei mobili che mancavano per finire la casa.
La mia filosofia zen mi imponeva di stare calma e affrontare la cosa con tranquillità.
Il meccanico era assorto nel cambio della ruota e, mentre gironzolavo intorno all’automobile, vidi da lontano il nero che girava l’angolo evitando di passarmi davanti.
Lo squarcio della gomma era opera sua.
Erano due settimane che vivevo da sola e che passavo situazioni sgradevoli o senza un’apparente senso.
Non avevo mai creduto nelle energie negative e nelle cose sovrannaturali, io quelle storie le scrivevo.
Tutto però si sommava all’idea che mi ero fatta del palazzo: o era maledetto l’intero stabile o erano maledetti gli inquilini.
Avevo capito che non ero la benvenuta e quando salivo quegli innumerevoli scalini filavo dritta a casa.
I rumori erano aumentati, le pareti lasciavano trapelare i discorsi che facevano i vicini. I passi del nero e di suo figlio rimbombavano.
Decisi di fare una vasca rilassante nel bagno che avevo arredato in stile giapponese: una testa di Budda con gli occhi chiusi si trovava sul lavabo e dell’incenso acceso su una mensola.
Avevo aperto l’acqua e messo del bagnoschiuma. Il tepore aveva appannato il lucernario che si trovava nel soffitto. Mi immersi abbandonandomi al rilassamento.
Sentivo solo lo scoppiettio delle bolle della schiuma che si disfacevano.
Mi cadde una goccia d’acqua sulla testa.
Poi un’altra e un’altra ancora.
D’un tratto mi chiesi da dove potesse venire l’acqua visto che ero in una vasca.
Aprii gli occhi e vidi che il lucernario era tutto macchiato di rosso, quel liquido stava colando sopra la mia testa.
L’acqua della vasca era rossa. Mi alzai e la testa di Budda aprì gli occhi e mi urlò di andarmene.
Una volta vestita al meglio uscii da quel palazzo, mi infilai in automobile e mi allontanai.
Vidi dallo specchietto retrovisore che gli inquilini del condominio erano sulla strada e mi osservavano.
Presi coscienza che mi stavo facendo suggestionare da qualcosa che fino a quel momento avevo solo scritto nei miei romanzi.
Tornai indietro.
C’erano tutti: il nero e suo figlio, la donna anziana e tanti altri.
Accesi i fari dell’auto e puntai loro gli abbaglianti.
Nessuno sembrava infastidito dalla luce.
Scesi e mi avvicinai.
Il nero si fece avanti. «Non ti vogliamo qui con noi.»
«Io rimango e nessuno di voi potrà più fare nulla per spaventarmi!»
«Chi lo dice che non riusciremo a cacciarti?»
«Lui!» dissi indicando un uomo con il mantello e il cappuccio nero che stava sotto un lampione.
La luce gli rabbuiava il volto ma la falce del mietitore si vedeva benissimo. La lama imponente riluceva.
Gli inquilini lo osservarono avvicinarsi a passo lento.
Una volta di fronte a tutti, il mietitore abbassò il cappuccio.
Era me.
Sì proprio così, ero io che mi riprendevo la mia vita.
Li tagliai a fette e quando anche l’ultimo, il meno fastidioso di loro, fu fatto fuori, il mietitore, che incarnava me, si rimise il cappuccio e si allontanò nel buio della strada.
Ero felice.
Finalmente potevo godermi il mio appartamento.
Parcheggiai l’automobile e salii le numerose scale: erano leggere.
Arrivai al quarto piano con gioia, spalancai il portone e trovai un giardino lussureggiante, numerosi fiori e alberi da frutto, vidi i miei tre cani venirmi incontro e un cielo senza una nuvola.
Trovai quello che cercavo – non i beni materiali – ma il Paradiso.
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