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“Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita”. Lo disse Alfonso Gatto a Gianni Rivera
(di Mimmo Mastrangelo)
Alfonso Gatto aveva a cuore la Salernitana, il club granata della città dove nacque il 17 luglio del 1909, ma nella rubrica settimanale di calcio affidatagli da Indro Montanelli sulle pagine del Giornale e che iniziò a curare nell’estate del 1974, non perdeva occasione per manifestare la passione per il Milan e, in particolare, per Gianni Rivera della cui eleganza tecnica era follemente invaghito. Nell’articolo-lettera pubblicato il 7 maggio del 1975, Gatto si rivolgeva direttamente al capitano rossonero: “Caro Rivera…sono certo che continuerò ad essere, quale voglio essere, un modesto testimone della sua felice operosità sul campo, là dove lei inventa con grazia fulminea ed irripetibile il gioco. Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita. Voglio dirglielo: anche il poeta ha il proprio campo ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di aver colpito il segno”.
Alfonso Gatto, di cui ricorrono i quarant’anni dalla morte (perì in un incidente stradale a Capalbio l’8 marzo del 1976), fu uno dei nostri più grandi poeti del novecento, sfidò i confini convenzionali del poetare, si propose da cantore “realisticamente surreale”, dando fiducia al sogno della realtà e alla realtà del sogno. E non solo, passava per il poeta dei colori, nel cromatismo festoso della sua parola è rintracciabile la solarità dell’amata Salerno e la verità di quella meraviglia in dote solo ai bambini, non per caso compose molti versi che celebravano il tempo dell’infanzia.
Ritornando al “Gatto-calciatore” (così lo appellò Gianni Mura), già nel 1948 sulle pagine di “Vie nuove” egli paragonava il campionato a un grande romanzo popolare a puntate ed invitava i lettori-calciofili a riflettere sul quesito: “Credete che giocare a calcio sia soltanto tracciare sull’erba di un bel prato sì e no qualche bel pensiero o una novelletta che mostra l’esile traliccio della sua trama? Sbagliate, siete fuori strada: si cerca il grande romanzo a puntate e che dentro ci sia la pioggia, il fango, la nebbia, la vecchia Europa di Sindelar e l’Italia di Calligaris e di Ferraris IV. Sono morti sul campo, lo ricordate?”.
Ancora sul binario unico della poesia e del calcio, Gatto insisteva nel riconoscere nei poeti i veri cannonieri, coloro che hanno messo a sigillo tante e belle marcature, la letteratura deve tutto a loro e “nulla o quasi nulla ai suggeritori e ai centrocampisti che fanno i conti con la ragione”. Gongolante nel veder all’opera “l’abatino” Rivera, Gatto aveva, tuttavia, occhi aperti per tutti quei giocatori capaci nel far danzare la palla tra i piedi e trasformare il proprio dribblare “in un pensiero che libera e illumina il campo”, elogi spese per il poeta del gol Sandro Mazzola e l’Altafini juventino (le sue “sono esibizioni da Arsenio Lupin del calcio”), apprezzò la slancio nel gioco di Giacinto Facchetti e la sua generosità fuori dal campo, riuscì ad intravedere la stazza del campione in Giancarlo Antognoni tra la nidiata di giovani presi in cura alla Fiorentina da Nereo Rocco, dei signori della panchina portava stima a Vinicio e, su tutti, al professore Fulvio Bernardini che, dopo Ferruccio Valcareggi, prese la guida degli azzurri (“la tua firma di buon maestro, di uomo allegro, aperto, libero, che ha fuggito le muffe dei corridoi dei politici, delle mafie dirigenti per dire che il calcio è un gioco, che i giocatori sono uomini col proprio diritto a essere squadra e non la formula di un potere”).
Il poeta salernitano si lasciò tramortire dalle muse della pelota perché credeva nel bel gioco e perché “al calcio dovrebbe giocare soltanto chi è capace di pensare coi piedi”. Una volta all’uscita dello stadio di Firenze, Gatto disse ad Aldo Palazzeschi che i calciatori non si possono riconoscere se non in angeli. Peccato, solo per il portiere Boccaccio dei versi de “La partita di calcio” la vita è grama e per nulla angelica. Dopo aver subito una gragnola di reti ed essere deriso dal pubblico, lo sfortunato numero uno è costretto a lasciare il calcio per farsi portiere di un condominio (“E difatti il buon Boccaccio/col berretto e col gallone/mani pronte a spazzolone/oggi è guardia di un portone/dove passano persone/ che fermare egli non può/dieci vento cento più…”.
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