Lo Zibaldone
Il Buddhismo secondo Raimon Panikkar
È stato recentemente edito il quinto volume dell’Opera omnia di Panikkar, dedicato al buddhismo: la cosiddetta religione senza Dio. E giusto intorno al supposto ateismo del Buddha ‒ ma anche su quale sia il cuore del suo messaggio ‒ s’incentra l’attenzione di questo poderoso/ponderoso libro, scritto da un eccentrico filosofo/teologo, considerato da molti una vera e propria guida spirituale del XX secolo nonché un eminente fautore/testimone del dialogo fra le diverse forme religiose, tra Oriente e Occidente, a cavallo come egli è sempre stato tra la cultura/tradizione indiana e quella cristiana.
In effetti il buddhismo mai fa riferimento a Dio (o agli dei dell’induismo) né si occupa di questioni metafisiche, ad esempio di cosa ci accadrà dopo la morte o in che consista il nirvāṇa (l’affrancamento definitivo dal saṃsāra: dal ciclo incessante di vita, morte e rinascita); anzi, sintetizza efficacemente Panikkar: “Egli non risponde a domande circa la natura ultima delle cose. Rifiuta di lasciarsi trascinare in discussioni puramente speculative”. Il Buddha dunque tace, ritenendo che ogni discorso intorno alle suddette questioni porti solo a formulare teorie contraddittorie, ambigue, aporetiche. Egli sceglie il nobile silenzio, non perché contesti ciò su cui si è sempre avvalsa la filosofia occidentale, ovvero il logos, la parola/ragione, ma in quanto: “Vuol così dimostrare che la realtà del linguaggio, il mondo dei segni e delle espressioni può essere superato”.
Riguardo al senso/mistero della vita, al divino o al nirvāṇa è bene quindi sospendere ogni parola, che si rivelerebbe semplicemente inadeguata. Tale prospettiva non implica però ‒ sostiene Panikkar ‒ né agnosticismo, né ateismo. “Ciò che il Buddha fa è mettere a tacere la domanda, pacificare l’interrogante mostrandogli che la sua domanda non ha senso”. Non essendo inoltre l’Illuminato un filosofo né un teologo ma un maestro spirituale, il suo intento è solo quello di mostrare agli esseri umani la via verso la liberazione. Niente velleità d’ortodossia alcuna nel buddhismo, pertanto, semmai volontà di suggerire un’ortoprassi ‒ la retta pratica o il giusto comportamento da tenere onde liberarsi da ogni specie di dukkha (sofferenza, inquietudine) ‒ grazie al cosiddetto Ottuplice Sentiero, scandito in otto precetti (retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto comportamento, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione) e da percorrere all’insegna della compassione (karuṇā) e del non-attaccamento (upādāna).
Fondamentale secondo quest’ottica, infatti, è capire che nessuno di noi può mai essere autosufficiente ma sempre dipende dagli altri e con loro è interconnesso, insieme al mondo da cui traiamo sostentamento dal primo all’ultimo respiro. Così empatia, condivisione, sollecitudine verso ogni forma di vita sono gli elementi portanti dell’etica buddista. Come alla base della filosofia del Risvegliato sta la consapevolezza dell’impermanenza di ogni stato o ambito: da cui discende il venir meno dell’angoscia nei confronti della morte; giacché è vano sforzarsi di permanere in una certa condizione/forma o desiderare il possesso di beni/piaceri che presto o tardi dovremo lasciare.
In Occidente, purtroppo, spesso la religione buddhista è stata tacciata di pessimismo o nichilismo e di svalutare la vita, causa una lettura superficiale del primo sermone del Buddha a Vārāṇasī, dove egli enuncia che: “Rimanere in contatto con ciò che è spiacevole è dolore, rimanere separato da ciò che ci piace è anche dolore. In una parola, questo corpo, questi cinque khandha (aggregati) sono dolore. Questa è, o monaci, la nobile verità dell’origine del dolore: la sete che porta a nascere di nuovo, con la sua passione e desiderio, cercando soddisfazione qua e là; la sete dei piaceri sensuali, la sete di voler nascere, la sete di terminare l’esistenza”.
L’affermare che il dolore è insito nella vita mi sembra tuttavia incontestabile. Secondo il buddhismo, però, ogni nostro problema non sta tanto in questa o quella situazione/condizione esistenziale bensì nel modo in cui guardiamo ad esse. Non si tratta quindi di visione pessimistica; al contrario direi ottimistica, perché ritiene che la (qualunque) sofferenza possa essere superata, una volta venuta meno ogni sorta d’egocentrica sete, avendo raggiunto ossia il nirvāṇa, che di tale sete rappresenta l’estinzione.
Ma attenti a non considerare il nirvāṇa una realtà altra o la realtà ultima/vera, sottolinea Panikkar, poiché in questo modo ricadremmo nel pensiero metafisico. In un certo qual senso, piuttosto, tra saṃsāra e nirvāṇa non vi è vera differenza. Non rimane allora da aggiungere se non che l’immagine simbolica dell’illuminazione rappresenta una salvezza, o realizzazione spirituale, impossibile da definire ‒ per dirla con gli antichi greci ‒ sia attraverso il mythos (la arcaica parola/narrazione tradizionale, il racconto religioso), sia attraverso il logos (la parola della razionalità). Da qui il silenzio del Buddha, e di tutta quanta la mistica, intorno a Dio. Un tacere che non vuole negarlo ma astenersi dal proferire discorsi vani.
Raimon Panikkar,
Buddhismo, vol. V Opera omnia
Jaca Book, 2019,
pp. XIII-446, euro 40,00
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