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I confini del dolore

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di Francesco Roat

La psicoanalista Lella Ravasi Bellocchio nel suo ultimo saggio prende spunto dalla biblica storia di Giobbe per interrogarsi su I confini del dolore ‒ come recita il titolo del libro ‒, specialmente quello psichico, e sulla possibilità di porvi argine, nella consapevolezza che: “l’analista deve sapere di essere un tramite dell’inconscio che attraversa la vita di tutti, senza credere di sapere né di avere risposte assolute”. E la prima domanda che ognuno si pone di fronte alla sofferenza ‒ sia egli il paziente o il terapeuta ‒ è quella che sin dai tempi ancestrali l’uomo s’è sempre posto, ovvero: perché? Perché ad un certo punto della vita ci si trova di fronte a un malessere che lacera l’anima, a una disperazione incontenibile, a una crisi di fronte alla quale sembra non vi siano rimedi?

“Ci si sente in croce, inchiodati al crocicchio degli opposti, disperati dalla presenza di un male senza nome, senza confini, presi dentro al tagliola del cacciatore”, scrive con accenti lirici l’autrice parlando del dolore dell’anima, che è ancor più devastante di quello del corpo, se tale afflizione genera uno sgomento a prima vista intollerabile/ingiustificabile. Secondo la Ravasi Bellocchio il Giobbe che sta in noi (inteso sia come analista sia come analizzando), con la sua drammatica domanda sul perché di tutto ciò, da un lato mette in discussione le abituali conoscenze terapeutiche, messe a dura prova dal quel persistente rovello, da un altro rimanda quasi “a un’innocenza ferita a morte”, ad un patire nei confronti del quale il paziente non crede nell’efficacia di alcuna soluzione o cura.

Tuttavia è giusto dalla possibilità di riuscire a portare/sopportare il peso d’una simile croce che può darsi: “un nuovo modo di stare al mondo”. Non attraverso l’algido contributo della ragione; semmai grazie all’intuizione ed alla forza trasformatrice di un’accettazione della realtà che non è viltà, o un semplice rassegnarsi, ma accoglienza paziente e in grado di sanare ‒ se forte della rinnovata fiducia nell’esistenza ‒ i più grevi/gravi dolori. Come ad esempio quello causato dal venir meno di una persona amata. C’è poco da illudersi d’esorcizzare tale perdita irrecuperabile. Dice bene la nostra psicoanalista: “Occorre che impariamo a vivere, anche a lungo, il dolore che deriva da una frustrazione, da un lutto, da un senso profondo di mancanza, dall’incarnazione nella nostra vita «del male»”.

Sarebbe ingannevole ogni forma/formula banale di consolazione o illudersi che ci si possa liberare facilmente dai propri problemi solo avvalendosi di qualche pillola miracolosa (ciò detto, senza per questo biasimare l’impiego di psicofarmaci, quando la gravità della patologia lo necessiti). Altro è il laborioso e lungo cammino dell’analisi. Perciò: “Se si accetta di vivere Giobbe e di stare con il paziente dentro la domanda, abbiamo da attraversare insieme silenzi dell’anima e spazi dell’angoscia, territori desertificati dal dolore, il panico del nulla che opprime, un comune sentimento di impotenza, una comune notte da passare. L’unica speranza che dopo la notte ci sia un presagio d’alba”.

Non sembrino pessimistiche queste considerazioni, ma realistiche, oneste e sincere. L’intraprendere un percorso psicoanalitico implica già il sano desiderio di ritrovare un senso perduto alla vita, però questo comporta l’imparare a: “convivere con la parte di sé negata, rimossa, urlante il desiderio inappagato e forse inappagabile, di confrontarsi faccia a faccia con il mistero”, che è poi quello del come si riesca a restare al mondo nonostante la disperazione incombente. È opinione dell’autrice che non contino tanto le risposte teoriche ad una tale domanda di senso quanto il puntare sulla capacità umana di “sopportare il vuoto” come stato indispensabile per uscire, col tempo, dalla rassegnazione come dalla lamentazione, onde poter rendersi ancora disponibili a esperienze positive ed innovative.

Così alla concezione di un prendersi cura all’insegna di un’ottica razionalistica, tutta d’impronta maschile e solare, la Ravasi Bellocchio suggerisce un percorso alternativo ‒ chiamiamolo pure femminile o lunare ‒ il quale comporta la disponibilità ad accettare, non già di meramente subire, l’oscurità dolorosa che è in noi, al fine di poterla attraversare senza smarrirsi nell’Ombra, per dirla in termini junghiani. È una cura psicoanalitica di tipo materno quella qui proposta, dove: “Il materno si manifesta nel riconoscimento di un comune «essere creatura», si oppone al dolore, eppure lo sa e lo contiene”. Si tratta infine di apprendere ‒ mi permetto di aggiungere alle molte felicissime citazioni poetiche che arricchiscono il saggio ‒ ciò che mirabilmente/sapientemente ebbe ad indicare con brevi ma incisivi versi Hugo von Hofmansthal: “Lievi si deve esser: / con lieve cuore e lievi mani, / tenere e prendere, tenere e lasciare”.

Lella Ravasi Bellocchio, I confini del dolore. È possibile arginare la sofferenza psichica?, Raffaello Cortina Editore 2024, pp. 265, euro 18,00

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