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Lo Zibaldone

Homo viator

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di Francesco Roat

Da sempre, fin dalla sua comparsa in Africa, l’uomo è stato viator (viaggiatore, viandante). La sua tensione verso l’altro, l’oltre e l’altrove mai è venuta meno. Dapprima muovendosi a piedi, quindi con l’ausilio della cavalcatura egli ha potuto percorrere con sempre meno fatica percorsi sempre più lunghi. Per non parlare di tutte le invenzioni che via via gli hanno consentito di spostarsi agevolmente in ogni dove: dalle canoe ai transatlantici, dai carri alle automobili, dalle mongolfiere ai razzi spaziali, e chi più ne ha più ne metta. Potremmo quindi convenire con Claudio Tugnoli ‒ come egli osserva nella postfazione al suo ultimo testo poetico ‒ che la storia dell’homo sapiens si possa cogliere come una sequenza di sottomissioni sostitutive (mediante l’utilizzo degli animali prima e delle macchine poi), per mezzo delle quali muoversi/agire con maggior celerità e con minor fatica.

Tuttavia, proprio a causa dell’impiego sempre crescente di tali strumenti, oggi, dice bene Tugnoli: “la sedentarietà è divenuta l’occupazione più frequente”, ma “smettere di camminare comporta una regressione dell’organismo, l’intrusione di un malessere mal percepito, un inceppamento delle funzioni vitali tanto più invalidante quanto più prolungata è la sedentarietà”. Mentre muoversi a piedi ‒ specie in mezzo alla natura ‒ fa bene, oltre al corpo, pure allo spirito. L’andare a spasso lontano dal caos delle città ci consente altresì di gustare la dimensione del silenzio che: “permette di prendere le distanze dal mondo per vederlo meglio, sapere dove ci si sta dirigendo, è uno strumento per rafforzare la vita stessa”.

Soprattutto se non concepiamo il silenzio all’insegna del negativo ‒ come assenza/privazione di voci o suoni ‒, bensì del positivo ‒ quale condizione che consente il vero ascolto: premessa necessaria ad un’efficace comunicazione interpersonale. Di primo acchito può sembrare paradossale che il silenzio sia suscitatore di parole, ma non è così. Esso è invece disponibilità a recepire quelle altrui, presupposto di ogni discorso che non si riduca ad essere mera loquacità autoreferenziale: un monologo cioè, ma appunto un dialogo.

Nel/dal silenzio nasce poi la parola poetica/poietica, ovvero creativa. Tramite tale arte noi (autori e lettori/uditori) possiamo farci viandanti per dirigerci in varie direzioni: verso l’alterità del mondo esterno a noi o verso l’interiorità più abissale di quel vasto paese che è l’anima, i cui confini ‒ come ebbe ad osservare Eraclito ‒ non li potremo mai trovare, pur percorrendone ogni via, giacché: così profondo è il suo logos. E giusto grazie ad una serie di intensi tanka (brevi poesie formate di 31 sillabe, distribuite in 5 versi, secondo lo schema 5, 7, 5, 7, 7) Tugnoli si fa viandante lungo quattro itinerari.

Nel primo ‒ intitolato In cammino ‒ l’andare può ad esempio rivelarsi: salutare presa di distanza “da chi ti fa vivere / solo per ucciderti”; pacata consapevolezza della finitudine (“Si muor ovunque / salendo o scendendo / scale di anni / in acqua o su terra / lieto o triste che tu sia”); presa d’atto di come i confini siano barriere artificiali innalzate per separare gli uomini dai loro simili (“Una linea / tracciata sulla sabbia / è già un solco / che divide e devi / temere di violare”); scelta del silenzio come sublime modalità d’espressione (“Voglio parlare / solo con i silenzi, / con il mutato / ritmo del mio respiro, / con una voce roca”).

Nel secondo itinerario ‒ Campi di guerra ‒ l’autore si/ci interroga sull’assurdo della belligeranza: fratricida sempre e annichilatrice (“Arde il fuoco, / serpeggiano le fiamme / sotto il cielo, /distruggendo le case / e la cara memoria”), sottolineando il rischio di trasformarci in spettatori voyeuristici dei conflitti altrui (“La triste ignavia / di chi guarda il monitor / per origliare / gemiti moribondi, / spiare sguardi ebeti”) e segnalando come la guerra provochi – oltre a quella materiale ‒ una devastazione spirituale (“Non odi canti / in chiese abbandonate, /dal sacerdote / nessun pane è spezzato, / odi scoppi lontani”).

Il terzo viaggio, tra le Macerie, è forse il più cupo dei quattro. In esso par di udire: “Urla attonite” che “nessun dio in cielo /può ascoltare”; inoltre, grazie alla forza evocativa dei versi qui proposti, sembra di poterci trasformare in testimoni oculari/auricolari di una stolta “mattanza d’odio”; unica consolazione: la speranza in una Terra senza più frontiere divisorie (“Il mondo non è / mai come dev’essere / nei suoi confini: / sogna sempre un oltre / mai pago d’esistere”).

Infine l’ultimo e più breve, ma non meno interessante itinerario poetico: ‒ Oltreconfine ‒, emblematico sin dal titolo che accenna ad un’ulteriorità futura da raggiungere, la quale non sia costituita però solo da “promesse mancate”; ed allusivo d’un viaggio alla ricerca della “gemma precaria” che è poi la nostra fragile ma autentica umanità. Resta tuttavia l’apprensione che l’avvenire torni a mostrarsi catastrofico quanto il passato prossimo/remoto o ancor peggio di esso. (“Quando ogni cosa / è stanca d’esser ciò che è, / allora freme, /rompe antichissime trame / devastando la terra”). C’è solo da sperare che l’homo sapiens divenga finalmente tale!

Claudio Tugnoli, Homo viator. Tanka del viandante, Edizioni del Faro, 2022, pp. 79, euro 11,00

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