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Gli effetti psicologici del virus? Leggete la Peste di Camus, un romanzo attuale, una metafora in cui il presente continua a riconoscersi

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Di Gianni Zagato

Come una Wuhan dei nostri giorni, anche l’Orano della costa nordoccidentale algerina diviene all’improvviso, in un imprecisato momento degli anni quaranta del secolo scorso, una città messa in quarantena. Il morbo letale è comparso, come dal niente, e in un solo istante sovverte l’ordine dell’esistere sociale, apre una voragine dentro ciascun individuo, nessuno in cuor suo potrà sentirsene immune. Il virus ha tante facce, ma la più insidiosa e subdola, capace di ribaltare ogni valore di coesione di una comunità, è quella della paura che genera e diffonde ovunque. La malattia portata dal bacillo ha un suo vocabolario, di parole nuove e minacciose; mentre quelle antiche mutano di senso, fino al punto che alcune – salute, solidarietà, umanità – finiscono anch’esse in una quarantena, sospese, o peggio, scomparse. Le autorità da principio nascondono i fatti, poi cercano, invano, di arginarli. Il male così com’è venuto, scompare; sembra obbedire ad un proprio ordine, imperscrutabile alla conoscenza degli uomini, e della stessa scienza. Ma intanto penetra dentro i corpi e le menti, offende la nostra razionalità, scava nell’inconscio, e squaderna le fragilità che ci abitano nel profondo. L’altro visto come minaccia, il sospetto come metro di condotta, la ricerca di un untore come capro espiatorio, la violenza irrazionale come tentativo di difesa, il sovvertimento della legge e della morale civile.
La letteratura di ogni tempo, da Boccaccio, a Defoe, a Manzoni, ha narrato il morbo contagioso che periodicamente si presenta nelle diverse epoche storiche come simbolo della condizione umana, scandagliando quella zona di confine dove il male fisico diventa ben presto morale. E oggi che il contagio del Coronavirus assume le forme del nostro tempo globale, planetario, nessuno forse come Albert Camus riesce a dirci parole ancora attuali, di verità e di speranza, utili, necessarie a comprenderlo nei suoi molteplici risvolti. La peste è stata pubblicata nel 1947, l’occasione di tornare ora a leggerlo – nella nuova recente traduzione Bompiani di Yasmina Mélaouah (dopo quella “storica” di Beniamino Dal Fabbro) – è di quelle che ci pongono dinanzi ad una riflessione allegorica sul “male” e sulle sue forme, di questo e di ogni tempo, capace di orientarci nell’attraversarlo.
Il medico Rieux, l’alter ego dell’autore, che spende ogni sua energia per aiutare la gente di Orano colpita dal virus, ascoltando le voci allegre che alla fine della vicenda tornano a salire nella città di Orano tornata in festa, dirà che quell’allegria è sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce… E che c’è sempre un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice. Abbiamo la scienza, abbiamo la legge, abbiamo l’organizzazione sociale, per arginare. Ma come per il Leopardi della Ginestra, questo romanzo di Camus giunge a dirci che solo in una solidarietà umana che sia capace di fondare un’etica universale sta la risposta più alta all’assurdità del male. Ne saremo capaci?

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