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Gigi Proietti e il Leone

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di Sandro Capitani

Quella sera il saluto del leone non riuscii ad ascoltarlo, ma certamente ci fu. Saranno stati l’affollamento sotto la tenda di Piazza Mancini, quartiere Flaminio, oltre duemila posti spesso occupati da chi non ti aspetti, le continue interruzioni, risate, risate, risate, che facevano saltare tempi e scalette, per lo più improvvisate, l’emozione di essere lì, per assistere a qualcosa di assolutamente straordinario, nato dal nulla, ma con la voglia di stravolgere consuetudini e ritmi. Occorreva coraggio da leone. Ed un artista che accettasse la sfida, che guardasse lontano. Lo spettacolo era: “A me gli occhi, please”, gli anni erano quelli grigi di fine Settanta, bombe e mitra, l’incosciente sul palco Gigi Proietti, che da allora spiccò davvero il volo, rinnovando il concetto di teatro ed aprendo le porte a tutti.

La storia me la raccontò lui stesso in una intervista alla radio e successivamente mi venne confermata dell’inventore del Tenda ed impresario dello spettacolo, Carlo Molfese. Con l’aggiunta di gustosi particolari, che sono il sale ed il pepe di ogni narrazione.
C’era un circo su quella piazza, enorme, di fronte allo Stadio Olimpico, appena al di là del Tevere, oggi capolinea di autobus e di traffico commerciale. Pochi spettatori, clown tristi, il fallimento. Quel tendone divenne la dimora di tanti spettacoli, senza riscaldamento, senza lanci pubblicitari adeguati, solo voglia di fare e stupire. Un azzardo, una sfida, per gente coraggiosa.
Fu subito un successo, anche grazie ad un passaparola che sradicò pigrizia e diffidenza, che contagiò una città, che coinvolse le periferie, che portò a teatro un mondo nuovo, magari attirato dalla possibilità di poter vedere a pochi metri di distanza Fellini o Eduardo, Gassman o Berlinguer. Gli argini si ruppero.
Nel circo si esibivano un domatore un po’ borioso e due leoni male in arnese, ma pur sempre leoni! In attesa delle procedure di fallimento la loro gabbia venne parcheggiata ai margini della piazza, quasi dimenticati, a malapena nutriti.
Lo spettacolo prevedeva, più o meno a metà percorso, il suono di un gong. Ebbene, puntualmente a quel punto si udiva il ruggito dei felini che Proietti, sornione e trascinante, quasi dirigeva, ammiccando al pubblico. Uno spettacolo nello spettacolo. Rideva di gusto al ricordo, tempo dopo, di quel contributo felino, con quegli occhi inquieti e stralunati.
Nelle interviste a RadioRai che ho avuto la fortuna di fargli, ogni occasione era buona, ma senza abusare della sua cortesia e disponibilità, ripeteva sempre, dopo aver ascoltato il tema proposto: “Vabbe’, ma che dobbiamo di’?”.
E poi, dopo qualche minuto di intelligenza ed ironia allo stato puro concludeva: “Ho detto tante fregnacce? Taja taja, che è mejo per tutti e due“.
Una delle ultime volte, qualche anno fa, lo chiamai al telefono – rispondeva sempre lui, mai che mi abbia impalato ad un agente o collaboratore – per proporgli due battute scherzose sull’eterno confronto fra Roma e Milano, riattizzato da un’inchiesta di un istituto di statistica ripresa da vari quotidiani a corto di argomenti.
Proietti centrò il suo intervento sull’inutilità delle polemiche su quale delle due metropoli avesse la supremazia sull’altra, e sul fatto che ancora, negli anni Duemila, si rincorresero queste futili polemiche.
Poi la zampata finale. “Se proprio la devo dire tutta, e nessuno si offenda, quando loro (i milanesi) stavano ancora sugli alberi, noi (i romani) già eravamo froci“.
Basta, chiudiamola qui. Con una annotazione conclusiva.
Chissà Gigi come starà ridendo, lassù, ovunque egli sia, alla frase, sentita o scritta mille volte nel giorno del suo saluto: “La città di Roma rende onore al grande Proietti proiettando…” In meno di 24 ore è già un gerundio.
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