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Poesia

“Fermate quel tempo!”, il grido in versi di Stelvio Di Spigno

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di Simone di Biasio

Stelvio mi accolse nella sua casa napoletana di spalle. Mi diede le spalle per qualche minuto. Io sedevo dietro la sua scrivania che sembrava più da medico che da letterato e leggevo il suo “Mattinale”, una sorta de “Il Mattino” in versione poetica: quei versi erano per me notizia. Lo guardavo, immobile alla finestra; lui non ricambiava. Aveva inserito nello stereo un cd di un gruppo rock a me sconosciuto e si era fermato davanti al vetro; oltre il vetro un piccolo parco di grossi pini. Oggi apro il suo libro, a due anni di distanza, primo testo il seguente: «Me la immagino uguale la mia faccia,/ a fissare dal vetro/ il mondo che fa paura/ e si avvicina, e io fermo per timore/ che lasciare la mia casa/ mi facesse scordare/ chi mi voleva bene». Ho capito che allora mi aveva confessato in quel modo, immobile, la sua poesia. Me l’aveva consegnata non come ad un ospite qualunque, ma a qualcuno cui poteva dare le spalle, regalarle davvero per donare la vista oltre il corpo. Lui sì, Di Spigno è immobile, ma la vita si sposta di stazione in stazione.

Da una parte, dunque, la prima volta nella sua casa; dall’altra la prima volta nella sua seconda casa, la poesia di questo volume appena edito da Marcos y Marcos: “Fermata del Tempo”. E se il prefatore Umberto Fiori ha ironizzato sul nome del poeta (che dovrebbe chiamarsi Stelvio Di Sdegno), io direi che questo libro avrebbe dovuto intitolarsi, magari, “Fermate quel treno!”. Una ontologia del pendolare, una raccolta di versi in stazione, di fermate del treno umano, ritardi accumulati, maleodori. Un grido lancinante lanciato da più parti: «Ma intanto passano i treni e gli anni./ Io ricordo tutto e niente. L’altra domenica,/ però, quando ho visto i nuovi quindicenni/ che hanno preso il mio posto nel coro/ della chiesa, sono uscito dal sagrato, ho finto/ un malessere, mi sono appartato e, lo dico/ senza vergogna, ho pianto le peggiori lacrime/ dai tempi del primo vagito».

È un bardo, Stelvio, del pendolarismo, dell’arte di pendolare, di oscillare tra una stazione e l’altra, di ordinare i versi minutamente: tra uno spazio e l’altro ci sono tempi definiti. Non riesce sempre a lasciarsi cullare: immaginatelo con lo sguardo fisso su quei vetri del regionale talmente sporchi da poterci vedere riflessa, al massimo, la propria ombra. Anche così si fa un quotidiano viaggio con se stessi e si sconta la propria presenza ingombrante, i propri passi non obliterati, il proprio corpo mutilato multato. «Nella teoria del verde dopo il verde,/ arriva questo treno che batte ogni paese:/ Sezze, Fondi, Itri. Campi, bestiame, cimiteri.// Si riavvicina pericolosamente/ al golfo di Gaeta che ci attende inutilmente». Perché ci attende inutilmente? È forse l’inutilità che attende, e la paura: «Qui fallisci e vai via. Espulso dalla tribù. Non hai/ diritto di replicare. E dire che il fallimento/ ha la stessa scatola cranica della morte. (…) Ma questa è solo una poesia». Solo una poesia? Davvero solo una poesia? Perlomeno questo è un andirivieni: «Fuoco nell’aria mista a sale e a corpi terrestri/ e incostanti. Pedalare, camminare, sterzare con l’auto/ per Gaeta, Formia, Minturno. (…) tra le rotonde e le spiagge con nomi/ californiani, anche la fine perde l’orientamento». L’estate contro l’inverno, l’attesa contro il piacere, andare contro partire. Ma che fare? «Qualcuno dice che anche questa è vita», scrive riferendosi alla madre che ha «cercato di amare» (qui ho pianto, io “senza vergogna”).

Stelvio ha scelto di rimanere nel golfo. Che sia di Napoli o di Gaeta poco importa, ma è esattamente nel luogo in cui «Le parole si svelano con gli anni. Prima/ sono vento che tace». Magari perché protette da quella cinta di monti, e protese. Il treno non produce vento, spostamento, anni, tempo? Lo ricorda anche de Libero che, come Di Spigno, gridava “Vecchiaia fermati” e scriveva: «Tu gonfia di geloni cammina più lenta,/ non affrettarti, il cuore ti minaccia,/ il fiore che sta per sbocciare lasciami/ godere e tutte le botti del mio vino.// Vergognati d’inseguirmi così nuda,/ sfasciata all’inguine e in cenci i tuoi seni,/ addosso ti cucirò una bella gioventù/ e per allegro marito la mia ombra./ Fermati, vecchiaia, riposa laggiù,/ contentati di strappare i miei ritratti/ e io attenderò che passi tutto il fiume/ della vita per venire alla tua riva». Stelvio riporta: «Gli anni mi si siedono davanti./ Sui sandali, vestiti da padroni./ Parlano» anche «nel silenzio infinito della catena d’oro/ che portava mio nonno e che ora porto io». Il libro si chiude con questi versi, con questo discorso della badante in famiglia: «”chiamatemi quando viene sera:/ il mio numero l’ho lasciato a Elvio,/ so che pè fuori, ma vedrete che torna”». Elvio è Stelvio senza il suo prefisso “st”, “sta”. Sta Elvio, il suo stare è però un treno che sta accanto al tuo e non sai se è l’altro che abbandona la stazione o il tuo che ti porta lontano. È questa una poesia al passato, imperfetto per essere precisi.

Fermata del tempo

Stelvio Di Spigno

Marcos y Marcos

pp.112, Euro 15,00

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