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Lo Zibaldone

Elémire Zolla, Le tre vie. Soluzioni sovrumane in terra indiana

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di Francesco Roat

 Solo a partire dalla fine del XVIII secolo, ossia dall’avvio della Rivoluzione francese, gli europei iniziano ad interessarsi seriamente al pensiero tradizionale/religioso del subcontinente indiano. Non a caso proprio nel 1789 i Veda ‒ un’antichissima raccolta di testi sacri degli arii: popoli che intorno al XX secolo a.C. avevano invaso l’India settentrionale ‒ varcano, a Londra, l’insigne soglia della Biblioteca nazionale del Regno Unito (la British Library). Da allora l’attenzione per la spiritualità indiana non verrà mai meno in tutto l’Occidente, anzi con l’andar del tempo aumenterà via via sempre più, fino a raggiungere il culmine nel Novecento, sia da parte di antropologi, filosofi e teologi, sia da parte del vasto pubblico.

Fra gli intellettuali italiani che si sono rivolti con particolare attenzione/passione all’Oriente emerge la figura di Elémire Zolla (1926[-2002), che fu saggistastorico delle religioni, ma soprattutto grande esperto di dottrine esoteriche e cultore di mistica occidentale e orientale. Secondo Zolla, pur nella varietà delle concezioni religiose dell’India, possiamo nondimeno individuare un file rouge che finisce per attraversarle tutte quante, indirizzandole a una meta unitaria e condivisa: la cosiddetta “liberazione” (in sanscrito mokṣa). Emancipazione cioè non solo dalla catena di continue rinascite senza fine che ci costringerebbero a ritornare in questa valle di lacrime, ma pure dal giogo di ruoli/obblighi sociali, dalle maschere dell’io, dalle passioni o dai possessi che ci schiavizzano, e da ogni altro tipo di dipendenza.

Ma come è possibile raggiungere una simile libertà? Tramite le tre vie tradizionali della spiritualità indiana ‒ sostiene ancora Zolla ‒; quelle che potremmo chiamare: della conoscenza (jñānā), della devozione o fede (bhakti) e dell’erotismo (tantra). Sentieri che, per quanto apparentemente ci sembrino prendere direzioni dissimili, possono condurre all’identico traguardo. Quale percorso intraprendere, dipende poi da svariati fattori: la sensibilità intuitiva del singolo, la cultura in cui egli meglio si ritrova, le esperienze compiute, forse il destino. Ma questo alla fin fine conta ben poco per il religioso indiano, quel che importa infatti è raggiungere la mokṣa e con essa ‒ per dirla in termini buddhisti ‒ la liberazione da ogni specie di disagio, affanno, inquietudine esistenziale.

La prima via è dunque caratterizzata da una peculiarissima forma di conoscenza, detta: non-duale (advaita). Tale filosofia considera il fenomeno dell’universo quale un discontinuo e caleidoscopico mutar di forme, mentre l’Assoluto ‒ che sarebbe il substrato che le sottende ‒ non è sottoposto al divenire, bensì rimane sempre saldo e immutabile. Credere nella realtà del mutamento costituirebbe una fatale illusione (Maya), originante le molteplici insoddisfazioni/preoccupazioni nei confronti della vita e del mondo, destinati ad un (ritenuto) inevitabile venir meno. Chi invece fa sua la visione non-duale coglie tutto sub specie aeternitatis ‒ per dirla in latino ‒ ovvero vede tutto, sotto un profilo universale, come eterno.

Ma ascoltiamo a tale proposito le entusiastiche parole di Zolla: “L’aprirsi al puro essere è beatifico, largisce una pienezza eccelsa. Ci si avvede che in quell’aprirsi si contiene tutto il mondo circostante, l’intero stuolo dei fenomeni rispetto ai quali il dischiudimento è principio e causa. Questa è la prima certezza. Noi però siamo abituati a metterci dalla parte dei fenomeni molteplici e per questo siamo tormentati e confusi, crediamo di essere nati e di dover morire, senza renderci conto che questi eventi sono il risultato, la conseguenza di due idee che abbiamo applicato alla realtà (…): tempo e spazio. Il tempo non è un’esperienza, e non lo è lo spazio: sono concetti che imprimiamo su ciò che appare. Nell’io sono, privo di qualsivoglia qualifica, vivo in un eterno istante”.

La seconda via è quella all’insegna della devozione/fede e comporta il prender quieta dimora nel proprio Dio ‒ che in India ha moltissimi nomi o aspetti ‒, rifugiandosi in Varuṇa, in Kṛṣṇa o nel Buddha senza altro ambire/volere. Si tratta di un percorso spirituale praticato pure in Occidente lungo i secoli dai seguaci della religiosità giudaico-cristiana, che vedono nell’affidarsi a Cristo, alla Madonna o ai santi il modo per ottenerne grazie anche miracolose; in ogni caso trovando quanto meno in tali figure numinose conforto e consolazione.

E veniamo all’ultima delle tre vie, la meno nota a noi europei, quella del tantrismo, o culto di esaltazione/sublimazione dell’eros, grazie al quale l’incontro sessuale tra donna e uomo culmina in una sublime esperienza di consapevolezza infinita. Così l’atto amoroso crea un divino equilibrio delle energie che scorrono nel corpo yogico di entrambi i partner ed esso può culminare infine nel samādhi, in un’esperienza estatica dove le rispettive individualità di lei e di lui si disciolgono nella coscienza cosmica. Stiamo parlando di un: “incendio al calor bianco dell’ardore estremo (tapas) ‒ nota efficacemente Grazia Marchianò la curatrice/prefatrice del saggio di Zolla ‒ “che nei congiungimenti erotici rituali è volto a far sì che il «desiderio» sensuale (kāma), una volta privato del suo fascino coercitivo, si tramuti in ascesi”.

Elémire Zolla

Le tre vie. Soluzioni sovrumane in terra indiana,

Marsilio, 2019

pp. 102, euro 13,00.

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