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Editoriale. Senza crisi non ci sono sfide
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. […] È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. […] Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. […] Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno di noi, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. […] Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non volere lottare per superarla”. Sono parole che un “vecchio saggio”, il Nobel Albert Einstein, ha scritto, ben ottantuno anni fa, riferendosi alla crisi 1929-1932.
Coloro che lo desiderano possono leggere o rileggere il suo libro Il mondo come lo vedo io, del 1931, che, quest’anno, è stato ripubblicato da Newton Compton.
Ma sono riflessioni e incitamenti che valgono ancora oggi? Il mondo, da allora, è molto cambiato e il nostro Paese si è trasformato. “Non basta guardarla com’è oggi l’Italia; per cercare di capire bisogna ricordare anche le molte vicende del suo passato” (Corrado Augias, I segreti d’Italia, Rizzoli). Se andiamo indietro nel tempo riscontriamo che l’Italia è passata da “espressione geografica” (Klemens von Metternich) a quarta/quinta potenza industriale del mondo (all’inizio degli anni ’90). E questo è stato possibile perché gli italiani hanno dato ascolto a quel vivido sentimento di appartenenza e di orgoglio nazionale che li sollecitava a essere concreti e a fare, con impegno e fatica, senza abbandonarsi a inutili autoflagellazioni e commiserazioni.
Quindi basta piagnistei. Dobbiamo avere fiducia in noi, singolarmente e come popolo, nelle nostre capacità, nella nostra tenacia, nel nostro coraggio. La crisi non è soltanto economica ma anche di nodi che sono venuti al pettine perché non gli è stata riservata l’attenzione necessaria. Dobbiamo con determinazione smantellare i privilegi, le clientele, le scorciatoie e tenere ai margini della nostra società furbi e furbetti, bugiardi e simulatori, cortigiani e parassiti, meschini e vigliacchi. Loro proveranno sempre ad acquisire un ruolo, a celare goffamente la loro vocazione cialtronesca sotto un elegante doppiopetto. E non rimetterli in gioco dipende da noi. Lasciamoli nel limbo nel quale la cronaca più che la storia li ha precipitati. Manifestiamo il nostro disprezzo a quei cittadini, troppi, che evadono le tasse. (È ancora di grande attualità il libro Evasori che Roberto Ippolito ha pubblicato, nel 2008, con Bompiani). Pagarle, commisurate alle proprie possibilità, è un dovere morale, civico, legale per contribuire al costo dei servizi che lo Stato eroga a tutti, contribuenti ed evasori. Evadere è un atto di avido egoismo, è appropriarsi del frutto del lavoro degli altri. È infilare le mani nelle tasche del proprio vicino.
Siamo stufi. L’alternativa esiste e siamo noi. Reagiamo allo “spread mentale”. Non abbandoniamo “la partita alla quale la storia ci ha chiamato ma che ora ci sembra troppo difficile” (Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone, Pensare l’Italia, Einaudi). Non facciamoci condizionare. Dichiariamo la nostra ambizione, che è la voglia di sfidare l’ignavia che ha colpito i sindaci di alcune nostre città. Perché sarebbe bello tornare dall’estero e constatare che nel nostro Paese è tutto più pulito, ordinato, puntuale, efficiente, insomma a misura di cittadino. Condanniamo la malamministrazione ma senza farci trascinare dal vento dell’antipolitica e del populismo, che soffia forte ma inefficace perché non riesce a elaborare idee e un progetto per il futuro. Le idee sono importanti perché “una vita senza idee, una società che non libera da sé idee, sono letteralmente ‘infelici’, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere a se stesse” (Gustavo Zagrebelsky, Festival della Mente, Sarzana, 31 agosto 2012).
Lo shock di questa crisi non deve riportarci a un’Italia ottocentesca “che rinnega ogni sua conquista sociale e cancella la sacra speranza di ogni cittadino di poter migliorare la sua condizione, togliendo a chi merita l’opportunità di avviare il sogno di intraprendere” (Edoardo Nesi, la Repubblica, 18 agosto 2012).
È quindi necessario dare nuova forza alla democrazia. Difendiamola da chi vuol farla a pezzi. Ora, senza attendere l’avvio di nuovi “cantieri politici” (utili ai promotori più che al Paese). Rispettiamo la Repubblica, le sue regole e le sue leggi, senza lasciarci affascinare da estemporanee suggestioni stagionali. Se c’è stata una seconda repubblica – dopo quella prima che pure ha saputo tirar fuori l’Italia dalle difficoltà sociali, economiche e politiche e che è riuscita a schiacciare i fenomeni di terrorismo – è stata immatura, indecorosa, accattona e sciagurata: il suo fallimento ci porta a immaginarne e agognarne una terza.
Un recente sondaggio Demos (14 giugno 2012) evidenzia che il 52 per cento degli italiani ritiene che il Paese tra cinque anni sarà cambiato profondamente e immagina che il futuro ci riserva un’Italia migliore.
Noi stiamo con questa parte di italiani. Il futuro dell’Italia dipende da noi, più di quanto ciascuno è portato a immaginare.
Giuseppe Marchetti Tricamo
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