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Editoriale. L’Italia reale e quella virtuale

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di Giuseppe Marchetti Tricamo

Riuscite a immaginare l’Italia senza problemi? Senza grattacapi? Mi sembra di sentire la risposta: impossibile! E qualcuno aggiunge: se non ne avesse, li andrebbe a cercare, se li procurerebbe immediatamente. E appunto negli ultimi anni c’è stata una vera gara, tra coloro che i problemi avrebbero dovuto risolverli per non caricare sulle spalle, ormai gracili, dei cittadini difficoltà e preoccupazioni. È anche successo che ai disagi quotidiani di molti corrispondessero ingiustificati privilegi di pochi. Al tracollo dell’etica pubblica ha fatto da corollario per lungo tempo la navigazione a vista dello Stato che non ha saputo misurarsi con l’insostenibilità dei costi crescenti. Tutto questo si poteva evitare? Siamo ancora in tempo per invertire la rotta? E quale potrà essere la strada adatta?

Per capire, l’uomo giusto è Machiavelli. “Con tanti opinionisti, commentatori ed esperti può apparire idea bizzarra rivolgersi a Niccolò Machiavelli” (Maurizio Viroli, Scegliere il principe, Laterza). Ma lui, l’illustre fiorentino, conosceva la politica come nessun altro. Ed era persona saggia, schietta e onesta, che non si arricchì pur avendo gestito ingenti quantità di denaro nei lunghi anni in cui fu segretario presso la cancelleria della Repubblica fiorentina. Anzi, concluso il proprio incarico, tornò a casa ancora più povero e continuò a dedicare la sua esistenza a difendere la libertà di Firenze. L’esperienza gli faceva affermare che quando i cittadini non assolvono i loro doveri e diventano pigri, corrotti o furbi accade che qualche scaltro si faccia signore e corrompa la libertà. Un monito da tenere a mente, soprattutto nei periodi difficili di un Paese. In quei momenti occorre attivare la vigilanza, individuale e collettiva, per non mandare in rovina la democrazia.

Io diffido, come Machiavelli, dei cortigiani, di coloro che scelgono di essere servi. Diffido dei demagoghi sia ricchi che plebei: sono entrambi pericolosi e contano sul consenso dei cittadini per porsi, forti della rappresentanza popolare, al di sopra delle leggi, della magistratura e della Costituzione. Gli uni e gli altri vogliono cambiare la democrazia. Certamente non provo simpatia neppure per i populisti (ai quali si sono aggiunti recentemente i populisti mediatici) che si creano un’immagine virtuale della volontà popolare (Umberto Eco, A passo di gambero, Bompiani). Manifesto la mia avversione anche contro lo storico qualunquismo e il moderno “chiunquismo”, due fenomeni non facili da estirpare finché nella nostra società persisteranno gli abusi e l’inettitudine di una certa parte della classe dirigente, politica e manageriale, che non è scelta per professionalità e merito. Ma la serietà, l’onestà, la sobrietà, la competenza sono le qualità che fanno la differenza e mi aiutano a farmi distinguere gli affidabili dai mascalzoni.

La nostra democrazia è già un po’ cambiata e, lo affermano i guru, ancora cambierà sulla spinta di quella che è la rivoluzione del nostro tempo, quella digitale, del web, dell’irrealtà 2.0. Rendiamocene conto: le mutazioni in corso non sono di portata inferiore a quelle introdotte dall’invenzione di Gutenberg, che permise la rapida trasmissione delle idee, una volta affidate agli incunaboli, grazie alla diffusione dei libri a stampa, che trasformarono il mondo. E c’è già chi auspica l’avvento della democrazia digitale. “Al di fuori delle retoriche pan-tecnologiche, infatti, è evidente che il meccanismo della decisione telematica tende a cancellare la fase necessariamente lenta, problematica, riflessiva, della discussione per selezionare e promuovere i fattori emotivi, le sensazioni immediate, le pulsioni istintive” (Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi).

Il fenomeno non investe soltanto l’Italia. “Il mondo sta cambiando. Sono avvenuti fatti capitali che, in breve volgere di tempo, modificheranno gli stessi equilibri e la stessa visione delle cose” (lo dice messer Machiavelli a Pier Soderini, gonfaloniere della repubblica fiorentina, nel fantastico romanzo Divorati dal dragone di Sergio Campailla, Bompiani). “Vi sono momenti, nella storia, in cui sembra che tutti i cittadini del mondo insorgano per dire che c’è qualcosa di sbagliato, per chiedere un cambiamento” (Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi). Sì, molte cose sono sbagliate. Lo sono l’insicurezza che provano i cittadini, lo squilibrio sociale, l’instabilità politica, economica e sociale, la situazione degli istituti d’istruzione e delle università, il collasso della sanità, l’alto tasso di disoccupazione, l’evasione fiscale.

È mutato anche il rapporto con il rappresentante del cittadino: in passato era basato sulla conoscenza personale oggi i nuovi media e i social network (Internet, Facebook, Twitter, Meetup) svolgono un ruolo predominante nella costruzione dell’immagine fino a fornire appeal a persone vuote e scialbe, che altrimenti nessuno sceglierebbe.

I problemi, come abbiamo annotato, sono effettivi, minacciano il senso di appartenenza e richiedono soluzioni dinamiche – senza abbracciare l’ideologia del soluzionismo (Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete, Codice) – e concrete azioni non virtuali che facciano superare la crisi di fiducia, la diffusa disillusione, e blocchino il virus della controdemocrazia (Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi) e rafforzino la democrazia dell’Italia reale.

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