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Editoriale. Colpevoli di ecocidio

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Una bella giornata di sole può allontanare da noi qualche noioso acciacco del corpo e far dimenticare i molti malanni dell’ambiente, del territorio, della natura, che in primavera torna a risplendere senza però riuscire a rimarginare quelle ferite, che nel corso dell’inverno si sono manifestate in tutta la loro drammaticità. Abbiamo la memoria veramente corta. In Sardegna fioriranno i ginepri, i lecci, i corbezzoli e le ginestre e molti italiani vi torneranno in vacanza. I torrenti, ormai privi d’acqua, appariranno meno minacciosi, anzi addirittura tranquillizzanti. Sono quieti, bonari, non incutono alcun timore e quindi si potrà continuare a cementificare il loro greto, interrarli o deviarli. Gli alvei sono stati ristretti e ingabbiati, eliminando le aree di espansione. Ma essi, i fiumi e i torrenti, hanno dimostrato più volte che tutto questo non possono consentirlo perché vogliono continuare a scorrere dove ha deciso la natura. Noi umani dimentichiamo, la natura no. L’ambiente ci giudica e ci mette sotto accusa per la nostra disattenzione, per il comportamento vergognoso, per l’omissione di atti che, se attuati, avrebbero scongiurato catastrofi.

“Muoviamo più suolo, divoriamo più vegetali e animali, bruciamo, seghiamo, costruiamo più di quanto facciano l’erosione, le frane, le eruzioni e il complesso della vita sulla Terra” (Luca Mercalli, Prepariamoci, Chiarelettere). Tutto questo sta riducendo la nostra disponibilità di suolo. In Italia, nel periodo 2000-2012, sono scomparsi oltre settantamila ettari di foresta e nel mondo ogni minuto – ogni minuto – si perde, per incendi, disboscamenti e cause naturali, l’equivalente di cinquanta campi di calcio. Tutto ciò, unito all’emissione di gas, produce effetti nefasti sugli equilibri atmosferici, e il conseguente cambiamento del clima fa precipitare su di noi, con sempre maggiore frequenza e intensità, bombe d’acqua, piogge torrenziali, alluvioni disastrose, gelate, ma provoca anche siccità. Nei secoli, il rapporto tra noi e l’ambiente è mutato profondamente. Non siamo più amici del suolo, ne siamo diventati nemici e predatori famelici. Contro il territorio abbiamo scatenato trivelle, escavatori, ruspe, betoniere, gru, autopompe che si sono accanite per stravolgerlo e ingombrarlo di manufatti di calcestruzzo, di mattoni, asfalto. La scelleratezza, a volte materiale e altre morale, dell’uomo è stata accertata nel Vajont, in Val di Stava, a Genova, in Lunigiana, nelle Cinque Terre, a Giampilieri. Abbiamo cementificato coste e colline che, sature di seconde case, scivolano a valle. In Liguria, una frana ha investito l’Intercity Milano-Ventimiglia che è rimasto in bilico sulla scogliera di Capo Mimosa. Tutta colpa della natura? Recuperare quel treno sembra sia costato ben 2,5 milioni di euro.

La nostra ostilità, la indirizziamo anche al verde urbano. Pur essendo una città con un’elevata presenza di giardini, lo stato di abbandono e di incuria di Roma cresce e la capitale è sempre meno verde. In due anni, il patrimonio arboreo cittadino è stato privato di 6.647 alberi. Questi dati, pur non recenti, fanno comunque comprendere l’amara realtà. Quando è arrivato, l’autunno del 2012 non ha più trovato 1289 robinie, 810 pini, 605 prugni, 422 ligustri, 392 oleandri, 386 palme, 362 platani, 345 olmi, 114 pioppi. Alcune varietà sono scomparse del tutto dalla nostra vista. Poco lontano dalla mia finestra, dove la vecchia consolare svolta verso la città, c’è un albero che questa primavera non si è svegliato. È secco, inerte e i suoi rami sono immobili. Non si specchierà più con il color dell’allegria dei suoi fiori rosa-lilla sulle vetrine dei negozi. Lo chiamavano l’albero di Giuda, ma lui immagino preferisse il suo nome botanico e antico di Cercis siliquastrum. Lo conoscevano anche i merli, erano suoi amici. Era stato rapito dalla sua terra di origine e portato in città. Ma non si è adattato a questa vita di asfalto e di gas di scarico. Si è sacrificato per noi assorbendo le emissioni tossiche dei motori delle automobili e del riscaldamento degli edifici. Adesso, quest’angolo di città è meno bello, meno gradevole. Gli esperti dicono che, con un simile trend e poiché le piantumazioni sono modeste, tra 150 anni nella città eterna non rimarrà un solo albero pubblico. Ma, forse, esagerano.

E chissà se esagerano i media quando ci informano della situazione ambientale in Italia? Quando ci parlano degli sversamenti illeciti di rifiuti tossici e radioattivi, in terra e in mare? Del sistema criminale di smaltirli bruciandoli? Del rischio di contaminazione delle falde, dei prodotti agricoli e della fauna ittica? Delle buste di plastica “usa e getta” che, se disperse in fiumi, laghi, boschi e in strada, resisteranno quattro secoli prima di essere smaltite?

“E tutti sono colpevoli”, ridirebbe oggi Pier Paolo Pasolini, “l’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere” (Furio Colombo, Siamo tutti in pericolo, Tuttolibri, 8 novembre 1975). Un invito a rimboccarsi le maniche, perché il futuro dipenderà da scelte che possiamo ancora compiere, arriva da Grammenos Mastrojeni (L’arca di Noè, Chiarelettere). Effettivamente una coscienza ambientale, una voglia di cittadinanza attiva sta maturando nei molti che vogliono adottare una strada, un giardino, un parco, un sito storico, una risorsa idrica e far rinascere angoli degradati per una gestione condivisa delle nostre città e del nostro Paese. Apprezzabile. Che lo Stato e i Comuni lo permettano!

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