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Editoriale Aprile 2017. Lasciateci aprire le finestre

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DI GIUSEPPE MARCHETTI TRICAMO

È un pomeriggio di fine marzo, la primavera preannuncia il suo arrivo regalandoci una giornata illuminata da un cielo azzurro e dai primi colori dei giardini. Il verde diventa intenso, sbocciano i gialli, i viola, i lilla, i fucsia, i bianchi, fiori di alberi e piante che liberano i loro profumi. Qui, davanti alla mia finestra, un castagno si veste di gemme, che diventeranno ciuffi di fiori bianchi che poi saranno castagne (e forse caldarroste, castagnaccio o marron glacé).

È grande questo castagno, mi circonda protettivo, mi aiuta a raccogliere i miei pensieri, che altrimenti vagherebbero lontani. Con i merli, le tortore, i pappagalli e le cornacchie (hanno conquistato la città dopo gli anni dell’invadenza della cementificazione prepotente e sfacciata) che gli girano intorno, insieme ai gabbiani di fiume e ai piccioni, mi lascia immaginare di essere al limite di un bosco e non ai margini della città, su una delle piccole colline che circondano Roma. È protettivo quest’albero come il “castagno dei cento cavalli” che si incontra lungo la strada da Fornazzo a Linguaglossa, in Sicilia. Quell’albero accolse, sotto le sue enormi fronde, la regina Giovanna d’Aragona e la sua corte, un centinaio di cavalieri e i loro cavalli, sorpresi da un violento temporale durante un’escursione sull’Etna.

Così lo descrive il poeta Giuseppe Villaroel: “Dal tronco, enorme torre millenaria / i verdi rami in folli ondeggiamenti, / sotto l’amplesso querulo dei venti, / svettano ne l’ampiezza alta de l’aria”. “Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte. Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita” (Hermann Hesse, Il canto degli alberi, Guanda). Per ascoltarli e registrare i suoni degli ecosistemi che vanno impoverendosi, un professore di Pesaro, David Monacchi, si reca nella foresta equatoriale munito di microfoni ad alta definizione e torna con la preziosa colonna sonora di quei luoghi. Mentre al silenzio, che bisogna comunque saper ascoltare, dedica attenzione e un libro (Il silenzio, Einaudi) l’esploratore Erling Kagge. Il mio castagno è un bel colpo d’occhio. Mi tiene compagnia insieme al televisore, che tengo acceso a volume basso. Le immagini che scorrono sul video contrastano con la natura che mi sta intorno: qui è integra, altrove è aggredita e offesa, ma tassello, con il patrimonio artistico e culturale, della bellezza del nostro Paese (Piero Bevilacqua, Felicità d’Italia, Laterza).

Quella che vediamo in questo pomeriggio in televisione è un’altra Italia, che si contrappone con crudezza alla gioiosa primavera e che vorremmo non esistesse. Che questa che appare in tv sia la vita vera vogliono darla da bere i conduttori di molti programmi, con parole, atteggiamenti ed espressioni di circostanza, vacuamente partecipi. Per la corrente società dello show business, caratterizzata da una medietà appiattita verso il basso, è lo “spettacolo” che deve prevalere. È questo il motivo che spinge gli autori di diversi generi televisivi a propinare contenuti morbosi e conditi di un fascino perverso, “e su tutti i canali arriva la notizia / Un attentato. Uno stupro e se va bene una disgrazia / … / Inviati speciali testimoniano gli eventi / con audaci primi piani, inquadrature emozionanti / di persone disperate che stanno per impazzire./ Di bambini denutriti così ben fotografati / messi in posa per morire”. Così cantava Giorgio Gaber (C’è un’aria).

Avidità del turpe che monta in una disputa che non conosce confini di broadcast. Morbosità di un giornalismo geneticamente modificato (Ennio Remondino) che, spettacolarizzando il crimine, tra fascinazione e repulsione, si pone l’obiettivo (contando sul voyeurismo patologico di molti telespettatori) di far lievitare l’audience. Sì, sono gli indici d’ascolto il peccato originale dell’homo televisivus, che, dominato dagli schermi tv (e da quelli dei computer), si è avviato verso una totale passività ipnotica. (Daniel Pennac, L’amico scrittore, conversazione con Fabio Gambaro, Feltrinelli). Ma che effetti può produrre nel pubblico la visione prolungata?

Dipende indubbiamente dall’equilibrio personale di ciascun telespettatore: si va dall’emulazione, da una condizione di eccitazione che perdura e si scarica nella vita sociale, all’insensibilità verso quanto è autentica violenza e addirittura a diventare diffidenti, timorosi e impauriti da quel mondo che ci mostrano i media. Guardare un telegiornale o un programma con cattive notizie, eccessivamente enfatizzate, può innescare nei telespettatori di particolare sensibilità un’ansia che diventa, a seguito dell’accumulazione di negatività, un’intossicazione da information anxiety (Richard Saul Wurman).

Come reagire? Certamente facendo un uso consapevole, senza demonizzare in toto, ma fruendo esclusivamente della parte buona che le reti televisive offrono e rifiutando i contenuti manipolati che percepiamo come tossici (Enrico Cheli, Difendersi dai media senza farne a meno). E poi, tutti noi sappiamo che con il telecomando i canali si possono cambiare e la tv si può spegnere. Noi reagiamo con la migliore soluzione di sempre: apriamo un buon libro che contiene il sapere del mondo senza limite di tempo e che oltre ad ampliare i nostri confini di conoscenza, può sorprenderci e anche divertirci. Ma se c’è “un’aria che manca l’aria. Lasciateci aprire le finestre” (Giorgio Gaber).

 

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