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Editoriale Agosto-Settembre 2017. Bufale, fake news o verità?

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DI GIUSEPPE MARCHETTI TRICAMO

“Signore e signori, è la cosa più terribile alla quale abbiamo mai assistito. Aspettate un momento! Qualcuno sta cercando di affacciarsi alla sommità… qualcuno… o qualcosa. Nell’oscurità. vedo scintillare due dischi luminosi… sono occhi? Potrebbe essere un volto. Potrebbe essere… Mio Dio, dall’ombra sta uscendo qualcosa di grigio che si contorce come un serpente. E poi un altro e un altro ancora”. Questo l’annuncio che, letto con un tono concitato e drammatico, gettò nel terrore milioni di ascoltatori, da un capo all’altro degli Usa. È conosciuta come la più grande bufala mediatica di tutti i tempi. Accadde alla vigilia di Halloween del 1938. Per la sera del 30 ottobre la Cbs aveva deciso di mandare in onda il radiodramma Guerra dei mondi. A Orson Welles, che lo conduceva, il programma sembrò insignificante e poco appetitoso: per renderlo più vivace e stuzzicante decise di aggiungere un po’ di peperoncino. Burla, bufala o verità? Forse da allora, quando si ascolta una notizia in radio o in televisione o si legge su un quotidiano, dubitiamo della sua autenticità.

Ci dicono che viviamo nell’era della post-verità, della notizia falsa spacciata per autentica perché verosimile. Nient’affatto credibile, come Don Chisciotte della Mancia quando affrontava la sua avventura “avendo come elmo una casseruola e come spada un coltellaccio appuntito” e un “destriero raccontato come focoso che era un cavallo vecchio e zoppicante” e “per nemici mulini a vento”. (Eugenio Scalfari, Romanzo dell’era senza memoria, L’Espresso, 21 maggio 2017). Sembra però che la post-verità sia sempre esistita e che tra i primi a farne le spese ci sia stato il presidente Abramo Lincoln (era il 1864), che, comunque, fu più forte delle fake news che gli avversari avevano fatto girare sul suo conto per non farlo rieleggere. Se la post-verità. Non è un frutto esclusivo dei nostri tempi, è però indiscutibile che in questi ultimi anni sta rivelando tutta la sua nocività. Su Internet il rischio di accedere a fonti sbagliate è enorme. Online di fake news ce ne sono parecchie. E di tutti i tipi. “La grande trasformazione digitale ha coinciso con la moltiplicazione e l’integrazione dei media, cui ha corrisposto l’attitudine degli utenti alla personalizzazione del loro impegno”, pertanto “siamo passati dall’utopia dell’informazione per tutti all’utopia dell’informazione da parte di tutti” (Francesco Giorgino, Giornalismi e società. Informazione, politica, economia e cultura, Mondadori Università).

“La digitalizzazione della comunicazione ha profondamente modificato il panorama mediale contemporaneo”, ha affermato a Formiche lo scienziato della comunicazione Mario Morcellini, “sia in termini di soggetti deputati alla produzione di contenuti informativi, sia per quanto riguarda le pratiche quotidiane di fruizione del bene notizia”.

La rete funge da megafono al giornalismo partecipativo, che diventa sempre più spesso giornalismo personale, segnato dal narcisismo digitale, che fa circolare – senza filtro e con una velocità mai sperimentata prima d’oggi – informazioni non verificate, imprecise (anche per i tempi frenetici della rete), talvolta inventate di sana pianta e assolutamente lontane dalla verità è questo un fatto tanto frequente da far esplodere un caso mondiale sulla credibilità dei nuovi media. Già lo scorso anno la post-verità è stata giudicata dall’Oxford English Dictionary “parola dell’anno” (“denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli a emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”). Commentare un episodio, farne una notizia e diffonderla fra gli amici e i follower, di certo non fa di noi dei giornalisti. Oltre allo spontaneismo non manca per. l’informazione deontologicamente corretta, che non è di esclusiva competenza dei giornali che conosciamo come tradizionalmente affidabili e quindi attendibili, ma anche di testate digitali che tengono alla loro reputazione. Quindi non tutti sono Pinocchio! Il buon giornalismo, cartaceo o digitale che sia, deve continuare a fare da argine alle fake news, che tendono a tracimare. Per creare una barriera alla valanga delle post-verità., per garantire trasparenza e nuova credibilità ai media, ci regala un decalogo Carlo Verdelli (che ha anche tentato di ristrutturare l’informazione della Rai con un piano respinto dal Cda del Servizio pubblico) da applicare agli articoli, ai servizi, ai siti, ai giornali: norme che tra l’altro prevedono che si indichi se si tratti di news, opinioni, commenti, analisi e se la storia raccontata sia stata ricostruita dal desk utilizzando social network, agenzie, telefono o altre fonti, che devono essere sempre indicate. Anche l’Università. di Washington ha tracciato una linea “etica” del Digital Journalism stabilendo alcuni criteri fondamentali. Tutto questo per non precipitare in un nuovo Medioevo dell’informazione (Massimo Arcangeli, All’alba di un nuovo Medioevo. Comunicazione e informazione al tempo di Internet, Castelvecchi) e per cancellare con un deciso tratto di penna il ricorrente prefisso post, che vuole imporci, nell’indifferenza diffusa, una diversa democrazia, una differente modernità., una diseguale informazione, una difforme verità, un’incostante libertà. Ma, diceva Enzo Biagi, “la libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà!” Vale anche per tutto il resto?

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