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Edgar Morin: “Il paradigma perduto”
Di Francesco Roat
Un plauso alla Casa Editrice Mimesis per aver pubblicato ‒ in una puntualissima traduzione a cura di Eugenio Bongioanni ‒ il celebre saggio di Edgar Morin: Il paradigma perduto, che è divenuto ormai un classico nell’ambito transdisciplinare di filosofia, sociologia e antropologia. In tale testo il pensatore francese parte dalla critica alla tradizionale (e superata) opposizione fra natura e cultura; nonché dalla consapevolezza di come l’arroganza dell’homo sapiens per tutta la modernità non abbia fatto altro che cercare di asservire e sfruttare il più possibile il mondo extra umano, come se fosse una realtà altra e separata da noi: i presunti signori e padroni del pianeta.
Morin se la prende pure con la saccenza di un’ottica antropocentrica vetusta, che vede la specie umana come abissalmente distante da quelle animali, ritenute inferiori e incapaci di comunicazioni complesse o di un’intelligenza comunque non paragonabile alla nostra. Cosa confutata dalle ricerche degli etologi che ormai avrebbero dovuto convincere anche i più passatisti d’un fatto acclarato, e cioè che: “né la comunicazione, né il simbolo, né il rito sono esclusività umane, ma che hanno radici lontane nell’evoluzione delle specie”. Così come, studiando i primati, ci siamo resi conto che i gruppi dei babbuini e gli scimpanzè non sono: “un’orda sottomessa alla tirannia sfrenata del maschio poligamo”, ma vere e proprie organizzazioni sociali con precise norme e divieti: insomma collettività in grado di autoregolarsi; persino meglio degli umani nell’ambito demografico, che le scimmie gestiscono mantenendo al loro interno un numero di membri abbastanza costante.
Il mondo animale risulta quindi assai ordinato, mentre la comparsa dell’homo sapiens ha dato origine a una massiccia introduzione del disordine e soprattutto della malsana furia omicida. Tra le bestie, infatti, non hanno mai avuto luogo massacri intraspecifici ovvero, in parole povere, i leoni o i lupi non sterminano, né torturano, come noi, i loro simili. Altresì, in quella che noi chiamiamo natura domina l’omeostasi, la tendenza al raggiungimento/mantenimento di una ottimale stabilità; nella nostra decantata cultura, invece, tendono da sempre a prevalere la sregolatezza e la guerra.
Per questo, paradossalmente ma non troppo, Morin coglie dietro l’aspetto luminoso dell’homo sapiens quello oscuro e inquietante dell’homo demens ed è costretto a sottolineare che: “Qualsiasi animale, dotato di queste [nostre] tare demenziali, sarebbe stato senza dubbio eliminato senza pietà dalla selezione darwiniana”. Come a dire: la scomparsa dei bipedi dalla faccia della terra potrebbe solo essere questione di tempo, di devastanti conflitti nucleari, o anche solo di nuovi coronavirus mal controllati. Una cosa tuttavia appare assodata. Ciò che oggi va scomparendo ‒ o dovrebbe scomparire del tutto ‒ è una “nozione insulare” dell’uomo: quasi potesse mai affrancarsi dalla natura; e ciò che deve morire è la nostra “auto-idolatria”, alimentata dall’antropocentrismo e da un’eccessiva fiducia nel potere risolutivo della razionalità. Nella consapevolezza ‒ dice bene Morin ‒: “che ogni teoria, compresa quella scientifica, non può esaurire il reale, rinchiudendo l’oggetto nei suoi paradigmi”. Essendo qualunque approdo conoscitivo fatalmente condannato (purtroppo o forse per fortuna) a rimanere incompleto, parziale, provvisorio e falsificabile.
Ma è all’insegna dell’apertura fiduciosa all’ignoto ed all’inesplorato che si chiude il saggio del quasi centenario filosofo francese, il quale non si dichiara affatto scoraggiato dall’incertezza, relatività o non assolutezza del sapere, giacché a suo avviso: “È corroborante sfuggire per sempre alla teoria dominante che spiega tutto, alla litania che pretende di risolvere tutto. È corroborante infine considerare il mondo, la vita, l’uomo, la conoscenza, l’azione come dei sistemi aperti”. Cogliere insomma l’esistenza e l’universo (o il pluriverso, per chi crede ad esso) quali una novità da esplorare continuamente; senza la presunzione illusoria di definirla in modo esaustivo, dominarla o, peggio ancora, dissiparla.
Edgar Morin: Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Mimesis, 2020, pp. 237, euro 18,00.
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