Poesia
Della stessa sostanza dei padri
La poesia, forse, è quel gesto dell’umano che “accorda l’intuito al suo asse e ne ascolta l’ombelico”, è una profezia ancestrale che decodifica la natura civica e politica della nostra specie ricreando il senso di un’osmosi complessa – seppur istintiva- tra la sfera personale e quella sociale. “Della stessa sostanza dei padri” è il dolore, nel suo senso percettivo ed empirico più ampio e inclusivo, che accumuna gli uomini, i padri e i figli, nello svolgimento psichico ed emotivo di un maschile, finalmente rivelato attraverso tutta la sua profonda e poliedrica fragilità, che torna a unirsi, per impulsi di coscienza, alla pari fragilità del femminile da cui proviene, e a cui può ricongiungersi senza esserne inglobato (“C’è un silenzio fragile, umido di liquido amniotico e pronto a condensarsi come neve in cristallo,/di un seme che non sarà mai atto). Se un uomo riesce a dire “che, a parte il colore rosso, /il colore del sangue, della famigghia, ero mia madre più che mio padre”, invocando la forza creatrice -e non solo narratrice- della parola, il suono diventa vocazione alla responsabilità che germina nella propria personalità, imprescindibile particella iniziatica, e si propaga nella percezione dell’ambiente. La friabilità dell’essere uomo si dispiega nelle molte identità a cui l’autore dedica le sue composizioni, attraverso narrazioni eteronime o ortonime descriventi vite altrui, attraversate dalla sofferenza dell’esistere in una realtà feroce in cui la felicità è “un assioma impreciso” che non appartiene agli amori “irregolari”, così spaventosi per chi non comprende l’esistenza di un unico “alfabeto per l’uomo”. La felicità dall’irrisolto calcolo sfugge anche a chi nasce “in ritardo” e non ha nessuno che lo aspetta, a chi viene ammazzato per “l’apostasia del nome” eppure “rimane a guardia del vento che ci dormiva dentro”, a chi si suicida per “la finzione di una vita come tante”, a chi rimane crocifisso al proprio violino e, in ultima analisi, a chiunque sia affetto da “una diversità precisa e primordiale”. Se l’amore è una chiave che non sempre apre, c’è una dedica, in fondo alle pagine, che suggerisce qual è il destinatario primo e ultimo della vocazione a farsi testimone e curatore del dolore: “A me stesso”. “Tutto esisteva e tutto svaniva,/ contemporaneamente e impercettibilmente. Eppure” il dolore è un irresistibile senso panico che dall’uno si moltiplica nella pluralità, la stritola, la disossa e, infine, la libera nella sua più sincera essenza unificante e unificata. “Eppure”, come spiega l’autore tra metafore, ossimori, allitterazioni e sinestesie, non solo si può sopravvivere a questo archetipico richiamo alla distruzione ma è proprio da lì che ci si può riformulare in una nuova e più empatica ontologia umana, tutti insieme e ciascuno a suo modo.
Davide Rocco Colacrai,
Le Mezzelane Casa Editrice, 2021
67 pp., 11 euro.
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