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Religione

Consumare Dio

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di Francesco Roat

Che oggi il natale sia, per la maggioranza dei sedicenti cristiani, soprattutto occasione di mero consumismo è argomento sin troppo dibattuto, anzi ormai trito e ritrito. Che però la stessa religione si possa concepire all’insegna di un più o meno accentuato consumismo, è invece ‒ a mio avviso ‒ questione su cui riflettere: da parte di credenti e non credenti. Inizia a farlo Marcello Farina ‒ filosofo, insegnante e da sempre prete scomodo ‒ attraverso un libretto breve ma intenso, icastico ma puntuale (intitolato: Consumare Dio), che prende lo spunto d’avvio da una frase di Martin Buber, secondo il quale nessuna parola è stata tanto insudiciata e lacerata quanto il vocabolo Dio.

In nome di Dio, infatti, si è ucciso e ci si è fatti uccidere, sono stati innalzati roghi, allestite crociate, perpetrate guerre sante, e chi più ne ha più ne metta. Non soltanto tutto questo, però, in quanto ‒ nota Farina ‒: “tutta la storia delle donne e degli uomini, dai suoi inizi ad oggi, è testimone del ‘consumo’ della parola ‘dio’, sotto ogni cielo, dentro ogni cultura, parola amica per molti, nemica per altri, da rendere sterile o addirittura da cancellare dentro il vocabolario universale”. Dio è stato insomma sempre usato e abusato a seconda delle convenienze e delle ideologie.

E, forse peggio ancora, se ne è fatto da parte dei credenti quasi sempre un idolo, da pregare al solo scopo di ottenere in cambio qualcosa: protezione, aiuto, salvezza nell’aldilà, ma anche solo fugace conforto nell’avversità. È quanto ebbe già a notare il grande mistico medioevale Meister Eckhart, allorché scrisse: “talune persone intendono considerare Dio coi medesimi occhi con cui considerano una mucca, e così amano Dio come amano una mucca. Tu la ami per il latte e per il formaggio e per il tuo proprio utile. Così fan tutte le persone che amano Dio per la ricchezza esteriore o per la consolazione interiore; essi non amano Dio rettamente, ma amano il loro proprio utile”.

Si tratta, insomma, di rifiutare una volta per tutte l’idea di un Dio tappabuchi, per usare la felice espressione di Dietrich Bonhoeffer, o l’illusione di un qualche improbabile deus ex machina che possa/debba risolvere per noi i nostri problemi. Smettere di consumare Dio, detto in altri termini, significa in primo luogo farla finita con una religiosità infantile o banalmente convenzionale, che a questa o quella divinità si appella ‒ dice bene Farina ‒ solo: “per paura, per bisogno, per abitudine”. In parallelo consumare ovvero dissipare l’ambito del divino, del sacro e del mistero riducendolo ad un ente ‒ sia pur sommo ‒ significa comunque reificarlo, farne oggetto (di supponente teologia, quantomeno), ridurlo a qualcosa da gestire appunto a nostro uso e consumo. Qualsiasi utilizzo in effetti si faccia di Dio comporta forse la maggiore aberrazione spirituale che si possa compiere, la tracotanza (hybris) per antonomasia.

Come misurarsi allora con questa Parola abusata senza che essa venga declinata erroneamente? A livello d’una (il più possibile) autentica spiritualità d’ispirazione cristiana ‒ suggerisce Farina citando José Maria Castillo ‒, ciò equivale al rendersi conto di come il cuore del cristianesimo non sia la dimensione trascendente, bensì Gesù. Ma potremmo anche dire che l’uomo Gesù ci permette di aprirci al trascendente o a Dio, di cui è stato giustamente ritenuto figlio. Un Dio disceso sulla terra ‒ come vuole il mito (senza attribuire alcuna connotazione negativa a questo termine, che poi significa parola tradizionale, intuitiva ed autorevole) neotestamentario ‒, il quale si umanizza, svuotandosi d’ogni potenza/distinzione per assumere l’umile ruolo del servo (Fil 2, 5-7).

“La fede cristiana ‒ precisa Farina ‒ scaturisce dall’incontro con una singolare incarnazione in cui divino e natura, spirito e corpo si corrispondono in un amore incondizionato; chiamiamo Gesù Cristo questa congiunzione di finito e infinito che viene al mondo e lo apre al futuro di Dio”. E forse non è lontano dal vero Marcel Gauchet quando afferma che il cristianesimo rappresenta la religione dell’uscita dalla religione. O quantomeno, se intendiamo rimanere nella metafora del consumismo, il cristianesimo, dopo duemila anni dalla nascita di chi lo ha ispirato, dovrebbe permettere finalmente la scomparsa d’ogni tipo di consumo di Dio, consentendo di aprirci al bene della fratellanza, della condivisione e del dono gratuito. È ciò che ci auguriamo assieme all’autore.

Marcello Farina

Consumare Dio,

Fondazione Don Lorenzo Guetti, 2020

pp. 59, euro 7,00

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