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Premi e Concorsi

Concorso Chiara Palazzolo, il racconto vincitore

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In occasione del Premio Biblioteche di Roma, è stato  proclamato il vincitore del concorso Chiara Palazzolo. Il  vincitore è Luca D’andria con  ‘Maddalena è viva e vegeta’,  qui di seguito pubblicato

Maddalena è viva e vegeta

Avevo interrato Maddalena in giardino. Non l’avevo uccisa: è viva, e vegeta. Era diventata un albero, e dovetti piantarla. Non nel senso di lasciarla: era bellissima, stavamo insieme da mesi ed eravamo innamorati. L’avevo semplicemente messa a dimora come si fa con un geranio o una palma. E’ cominciato tutto all’improvviso, una mattina di giugno di alcuni anni fa. Aveva uno strano colorito marroncino scuro, con le gote tendenti al verde, e si muoveva rigida e lenta. Uscì fuori all’aria aperta: in piedi sul terrazzo, gli occhi spalancati sotto la luce violenta dell’estate, si piegava verso l’astro seguendolo lungo la volta del cielo. Aveva la pelle secca e tesa, ma sembrava tranquilla e andò avanti così per diverse ore. Provai a convincerla ad andare da un medico, ma non ne volle sapere. Diceva di sentire sensazioni nuove e ripeteva di volerle assaporare fino in fondo. Verso sera vidi che il cambiamento si andava accentuando: camminava simile a un burattino e il colore marrone era evidentissimo. Parlava a fatica, con voce gutturale e come a scatti. Continuava a dire di sentirsi bene, mentre io cominciai ad agitarmi: la strattonai, le urlai che dovevamo fare qualcosa, ma non sembrava darmi ascolto. Notai che si toccava la testa; i capelli le si staccavano a ciocche, e la cute sottostante era decisamente verde. La feci sdraiare sul letto e la svestii: la pelle dell’addome era coriacea e grigio-marrone. Il bianco degli occhi stava virando al verdino e li vedevo muoversi a piccoli scatti. In quel momento pensai per la prima volta che stava trasformandosi in un vegetale. Chiamai un dottore, pregandolo di venire ad aiutarmi in qualche modo, ma quando dissi che c’era una donna che diventava pianta scoppiò a ridere. Lo insultai, imprecai e gli urlai contro finché non mi chiuse il telefono in faccia. Provai a chiamare un altro medico, ed il risultato fu anche peggiore. L’agitazione che mi impediva di spiegarmi con chiarezza rendeva le cose anche più difficili. Decisi allora di fare qualcosa io, qualsiasi cosa. Andai in bagno e presi le tante creme idratanti che lei usava. Ce la spalmai da capo a piedi, massaggiandola forte sulla pelle dura cercando di ammorbidirla. La riempii di crema, girandola e rigirandola sul letto più volte, mentre emetteva piccoli lamenti e mi guardava interrogativa. Non cambiò nulla: la crema veniva assorbita e subito dopo la pelle era più secca e marrone di prima. Vidi con disgusto che le labbra un tempo rosee erano diventate incolori e le aprii la bocca. Ci riuscii con fatica, trovando i suoi denti bianchissimi e perfetti divenuti grigi come schegge di legno. Pensai allora che potesse avere contratto qualche strana malattia, e decisi di farle prendere delle aspirine. Non riusciva a deglutire e per farle ingoiare le pillole le tirai indietro la testa con forza. Questo dovette farle molto male perché spalancò gli occhi e fece degli scatti con la schiena, accompagnati da un rumore legnoso. Dai pochi movimenti che ancora riusciva a fare capivo che era molto più angosciata dai miei tentativi di arginare il mutamento del suo corpo che dal cambiamento stesso. Cercai di farla reagire, le urlai che stava diventando una pianta e che doveva aiutarmi a impedirlo, con una violenza che non le avevo mai usato prima. A quel punto, sbarrati gli occhi, non si mosse più. Di lì a poco notai dei puntini sulla cute del cranio: erano gemme, l’inizio di tanti teneri germogli. Crescevano quasi a vista d’occhio, e in poco tempo erano già lunghi diversi centimetri. Anche le spalle e le dita delle mani cominciarono a gemmare, mentre dai piedi, fino al giorno prima così morbidi e graziosi, spuntarono decine di piccole protuberanze bianche. Presi le forbici e iniziai a tagliare i vari germogli sul suo corpo. Tentavo di trattenerla nel regno animale, mentre lei soffriva in modo evidente ad ogni taglio: i rametti tremavano quando avvicinavo le lame, e un piccolo tremito la scuoteva ad ogni potatura. Andai avanti così per ore mentre altre gemme comparivano ovunque; combattevo una battaglia che, mio malgrado, le provocava atroci dolori. All’alba dovetti desistere: le strinsi la mano nodosa e cedetti ad un sonno senza sogni.

Al risveglio mi alzai di scatto, accesi la luce, presi coraggio e la guardai. Al posto di Maddalena, sul cuscino c’erano rami dalle foglie verdi intenso, come un piccolo cespuglio. Sotto le lenzuola si intravedeva una forma lunga e immobile. La scoprii: la testa era di legno chiaro e levigato e vi spuntavano tanti rametti pieni di foglioline. I capelli erano caduti tutti e giacevano sul cuscino. Il corpo era diventato un tronco ricoperto di corteccia a piccole scaglie uniformi. Si indovinavano ancora le due sporgenze ormai legnose dei seni e più in basso la forma un po’ allargata del bacino. L’ombelico sembrava il segno lasciato da una vecchia potatura. Le braccia erano rimaste rigide ma sinuose vicino al corpo, con le dita piene di sottili germogli. Le gambe erano simili a due grosse radici, attorcigliate tra loro più volte e a tratti fuse insieme. La forma dei piedi era appena visibile e al posto delle dita c’erano radichette sempre più piccole, terminanti in lunghi filamenti bianchi sparsi ovunque sul letto come una ragnatela.

Era diventata definitivamente un alberello. Che altro potevo fare? Dovevo metterla a terra in fretta, o si sarebbe appassita. Provai a sollevarla dal tronco, ma era troppo pesante. Avrei potuto trascinarla, ma temevo di danneggiarle le radici o le foglie. Andai quindi in giardino, presi la carriola e con un grosso sforzo riuscii ad adagiarvela senza danni. La portai all’aperto e, temendo potesse iniziare a seccare, avvolsi le radici con stracci umidi. Subito dopo iniziai a preparare il luogo per la piantumazione. Il giardino era grande e non mi fu difficile individuare la zona meglio esposta al sole e più riparata dal vento. Iniziando a dissodare il terreno, mi resi conto che la terra era arida ed argillosa, non adatta a una pianta bella come Maddalena. Andai quindi a comprare del buon terriccio e due sacchi di letame, e dopo una giornata di lavoro intenso il terreno mi parve adatto: nero e soffice. Preparai una buca e con attenzione ve la adagiai curandomi che rimanesse ben diritta, ricoprii con delicatezza le radici, compattai tutto intorno e annaffiai. Mi parve una buona sistemazione e sentendomi un po’ sollevato l’abbracciai per qualche istante sul tronco. Non ero riuscito a farla rimanere donna e se non volevo perderla del tutto dovevo rassegnarmi ad amare una pianta.

Il mattino seguente le foglie erano verde intenso, ben dritte e tese verso il sole. La corteccia era sottile e ben idratata, e a guardare il piccolo albero nel suo complesso riuscivo a riconoscervela distintamente. Per alcune settimane fummo felici. Lei frusciava allegra al minimo alito di vento quando l’annaffiavo, eliminavo i rami deboli e, nelle giornate calde, spruzzavo d’acqua le tenere foglie a forma di cuore. In poco tempo le braccia si alzarono verso l’alto e divennero dei bei rami frondosi. Una mattina di luglio urlai di gioia trovando tre grandi fiori appena aperti. Erano di un bianco appena tendente al rosa ed emettevano un odore leggero, appena agrumato; li accarezzai dolcemente e sperai che si trasformassero presto in frutti. Passarono giorni, settimane, ma questo non accadde: i fiori appassirono e al centro rimase solo un triste moncherino grigio. Arrivò l’autunno e ai primi freddi le foglie di Maddalena ingiallirono e caddero veloci. La coprii con dei teli per ripararla dal freddo e mi predisposi ad attendere la primavera successiva.

Durante il suo letargo invernale cominciai a soffrirne la mancanza. Mi ero illuso di poter accettare la sua nuova natura vegetale, ma mi resi conto della distanza impossibile creatasi tra noi. Volevo parlarle, avere un contatto diretto con la sua pelle di un tempo, stringerla a me. Non riuscivo a rassegnarmi alla differenza cromosomica che ora ci separava. Sognavo ogni notte di sentir bussare alla finestra del giardino e, aprendo, di trovarla di nuovo fatta di carne, sporca di terra, nuda e tremante dal freddo. Quando invece guardavo fuori e la vedevo scheletrica e immobile, stringevo i pugni dalla rabbia fin quasi a ferirmi con le unghie. Ai primi accenni di bel tempo presi a controllare le gemme sui rami più piccoli, finché una mattina di marzo spuntò la prima fogliolina. In breve Maddalena aveva di nuovo una folta chioma e iniziò subito a fiorire. I boccioli erano più copiosi e belli dell’anno precedente: speravo che le radici si fossero irrobustite e che ora avrebbe fruttificato. Pensavo che il mangiare quei frutti e piantarne i semi ci avrebbe avvicinato, alleviando il dolore della nostra distanza. Quando in capo ad alcuni giorni i fiori caddero di nuovo tutti senza generare frutto, creando un solenne tappeto bianco sotto di lei, anche il resto di Maddalena si rattristò con me. Le foglie ingiallirono, sebbene fosse ancora piena estate, e i rametti non stormivano più felici nel vento ma facevano un certo suono lamentoso, quasi lugubre. A quel punto capii che quei meravigliosi fiori femminili non potevano essere fecondati da nessuna altra pianta, e sarebbero sempre rimasti sterili e inerti. Un cupo giorno di quell’autunno non potei resistere oltre: ero certo di non avere altra scelta. Preparai il terreno in un angolo vicino a lei, scavai una nuova buca, mi spogliai e mi infilai dentro ricoprendomi di terra piedi e gambe fin sopra le ginocchia. Rimasi così ad aspettare la fine, tremando al freddo di quella notte di novembre.

Ora ogni primavera il polline vola dai miei fiori verso i suoi, portato dalle api e dal vento, e d’estate Maddalena matura grossi frutti rosati e succosi. Quando sono pronti, li lascia cadere pigra e soddisfatta, e dai piccoli delicati semi nascono tenere piantine intorno ai nostri tronchi. Sotto di loro, le mie e sue radicisono così intrecciate che è impossibile capire dove inizino le une e finiscano le altre.

Luca D’Andria


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