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Cibo e bevute nella vita di Hemingway
In tutti i romanzi, racconti, il protagonista e i suoi comprimari mangiano e bevono lautamente, basti pensare alle bevute nell’ospedale dove l’alter ego dell’autore si fa portare bottiglie di whiskey nascondendole sotto il letto della stanza dove è ricoverato.
Il cibo nella letteratura di tutti i tempi e di tutti i generi, includenti anche l’ambito del sacro, basti pensare alla biblica manna che permette agli ebrei in fuga dall’Egitto di salvarsi nel deserto, per passare all’ambito solo in apparenza “elementare” della fiaba con il Paese con le casette di marzapane, o la mortifera mela di Biancaneve, ha rappresentato un elemento sempre presente, come una sorta di leitmotiv, sottolineando l’importanza che esso riveste nella vita e nell’immaginario collettivo. Inoltre dal particolare modo in cui esso è trattato: dalla sua carenza o dalle pantagrueliche mangiate, dal desiderio e dalla fatica di trovarlo, fino a giungere a descrizioni di totale assenza di esso rappresentate dal “popolo dei Campi” che raschia il fondo della gamella alla ricerca di un ultimo vitale, resto, si può inserire il personaggio in una data società e cultura, un’epoca, una classe sociale rapportandolo a tutto un universo che lo circonda e che costituisce il suo mondo.
Considerando questo tema nella letteratura, mi salta all’occhio la particolare importanza che il cibo e soprattutto il bere, nella loro “corporeità”, rivestono nell’opera letteraria e nell’esistenza di Ernest Hemingway (1898-1961). Personalità al tempo stesso dominante e ricca di insicurezze, portata a vivere senza limiti in ogni ambito, Hemingway è attratto dalle avventure estreme: la caccia e le famose battute ritratte con mano sicura in capolavori come Le nevi del Kilimangiaro; la guerra che lo porta ad arruolarsi giovanissimo tra i volontari dei servizi sanitari nella Grande Guerra nell’esercito italiano e che gli farà scrivere Addio alle armi (1929); la Spagna che lo vedrà impegnarsi in prima persona nella denuncia delle atrocità, durante la guerra civil e della quale fornirà un ritratto lucido e vissuto, col suo classico stile asciutto ed icastico e lirico al tempo stesso, in Per chi suona la campana (1940) in cui è presente il binomio amore-morte. E poi, la tauromachia di cui realizza un trattato in Morte nel pomeriggio (1932) e, in forma di romanzo, in cui emerge sempre il binomio vita-morte, Fiesta (1926). Nella corrida si esorcizza, proprio perché si segue una specifica ritualizzazione, la morte.
In tutti i romanzi, racconti, il protagonista e i suoi comprimari mangiano e bevono lautamente, basti pensare alle bevute nell’ospedale dove l’alterego dell’autore si fa portare bottiglie di whiskey nascondendole sotto il letto della stanza dove è ricoverato. Superalcoolici tra cui gin, rhum, whiskey, tequila, champagne, mescolati al potente liquoroso porto e vini misti a boccali di birra appaiono ad ogni ora della giornata ed in ogni momento, senza soluzione di continuità, ma non lasciano nel forte bevitore la benché minima traccia! Il bere come espressione di virilità, di machismo. E poi pesci pescati dal protagonista cucinati sulle braci, vengono consumati con grande piacere in un’atmosfera di totale immersione nella natura (Fiesta). Il bere è un rito, scandisce tutti i momenti del quotidiano. In Per chi suona la campana il protagonista pasteggia con un gruppo di partigiani durante la Guerra di Spagna, in attesa dell’evento che deciderà la sua sorte e quella della sua amata Maria e del gruppo comandato dall’arcigna Pilar. Nascosti nel bosco sulle montagne essi mangiano prosciutto con fette di pane, bevono da fiasche in pelle che lasciano in bocca sapore di catrame.
Ma sono soprattutto Festa mobile, postumo (1964) che come scriverà il Nostro, ricorderà i tempi belli in cui eravamo poveri ma felici, a darci l’idea di come il bere e mangiare smodati fossero cifra fondamentale per comprendere tutta una visione della vita. Il libro racconta la vita a Parigi, vera festa mobile, con la prima moglie e il figlio di pochi mesi. Qui le vite degli scrittori più grandi si incontrano e sono scintille. Incontrato Francis Scott Fitzgerald (1896-1940) e la moglie Zelda (1920-1948), ogni incontro sarà un profluvio di bevute, litri di alcool che vanno giù a garganella. Sono gli scrittori che Gertrude Stein definirà della Generazione perduta. Fondamentali saranno quegli anni nella formazione di Hemingway: lo stile si farà conciso, essenziale ma non meno espressivo. Importante anche l’incontro con Ezra Pound. Realizzerà, ed in ciò sarà maestro, le short stories.
Queste vite ricche di umanità alle quali dobbiamo tanto, dissipate nell’alcool o in altri modi ci hanno donato i più bei documenti della letteratura mondiale. Rappresentano tutto un mondo, un clima, quello dell’ età del jazz, ma anche un coraggioso impegno morale e civile in difesa della libertà. E Il vecchio e il mare (1952), lotta di un anziano cubano con un marlyn e testamento spirituale di Hemingway, esprimerebbe la forza della speranza che non si arrende alle difficoltà della vita.
Cesira Fenu
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