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Editoriale Ottobre 2017 – Central Park

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DI GIUSEPPE MARCHETTI TRICAMO

Vorrei sedermi su una panchina al Central Park di Manhattan. Lo fa frequentemente un giovane scrittore che tiene la sua macchina da scrivere sulle ginocchia. Sembra saltato fuori dal passato. Mi ricorda quella foto in bianco e nero di Indro Montanelli (scattata da Fedele Toscani) che, con in testa il cappello e indosso il cappotto dal bavero alzato, sta seduto su una pila di libri e vecchi giornali, schiena appoggiata alla parete del corridoio del Corriere della sera, e pigia con gli indici sui tasti della sua Olivetti portatile. Era il 1940 e il grande giornalista, trentenne ma già con una certa notorietà, era costretto a scrivere dove capitava. Il giovane del Central Park si accomoda non lontano dalla statua di Hans Christian Andersen ritratto mentre è impegnato a leggere Il brutto anatroccolo a una papera che, ai suoi piedi, lo fissa e l’ascolta. È lì che Cristopher D. Hermelin, questo il nome del giovane scrittore, inventa storie su commissione, collaborando spesso con il passante per il quale scrive il racconto.

Non mi farei mancare una passeggiata lungo il viale degli olmi tra le statue di poeti e scrittori, lanciando uno sguardo grato al drammaturgo William Shakespeare, al poeta Friedrich Schiller e al romanziere Walter Scott. Arriverei fino al Carousel, dove Holden Caulfield – nel romanzo di Jerome D. Salinger – guarda, fermo sotto una pioggia a catinelle, la sorella Phoebe divertirsi a girare sulla giostra seduta su un “vecchio stallone scuro dall’aria malandata”. Mi spingerei fino al Laghetto delle anatre e mi chiederei, con il giovane Holden: “Dove vanno le anatre in inverno quando la superficie dell’acqua diventa ghiacciata?”. Chissà se qualcuno va “a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O soltanto volano via”. È una domanda che ha attraversato molte generazioni di lettori e che ancora, ritengo, è rimasta senza risposta.

Tra queste statue ce n’è una dedicata a quello che viene considerato un intruso, perché non è un letterato. Si tratta di Cristoforo Colombo, che, dal 1892, si erge giustamente fiero davanti all’ingresso principale del parco. In questo momento, l’esploratore – l’orgoglio d’Italia in terra americana – è ritenuto intruso da tutti gli States e i suoi monumenti sono stati distrutti a Yonkers, Baltimora, Detroit, Lancaster, San Jose e addirittura a Columbus. A New York lo scopritore del nuovo continente, considerato da sempre padre fondatore come Benjamin Franklin e come George Washington, oggi è sotto osservazione perché giudicato un colonizzatore imperialista che, in quel 12 ottobre 1492, ha riservato un trattamento non amichevole alle popolazioni autoctone delle Americhe. Equivale a sostenere che bisogna cambiare il nome della capitale degli Usa perché George Washington era proprietario di schiavi. Ossessioni e contraddizioni degli americani! Ne mette a nudo molte Massimo Teodori nel suo recente Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti (Marsilio).

Sì, in questo ottobre in cui spero che gli Usa vorranno ancora celebrare il Columbus Day, vorrei sedermi su una panchina del Central Park non per vedere di nuovo quel che ho già visto (e che consiglio a chi non c’è mai stato), ma per meravigliarmi un’altra volta contemplando un fenomeno della natura che qui, nel piccolo ecosistema di un habitat urbano insolito, è unico e assume una particolare intensità. Un’emozione da ricordare! Intendo il foliage. I protagonisti sono i 25mila alberi e i moltissimi arbusti che mutano il colore delle loro foglie: il verde lascia il posto al giallo, all’arancio brillante, al rosso bordò. Uno spettacolo di primo autunno che esorta la natura e l’uomo a riconciliarsi. Immagini ben diverse – queste del foliage – da quelle che in questi ultimissimi mesi hanno prevalso sui media: sconvolgimenti tellurici, siccità e incendi, città calde e assetate e poi frane e inondazioni per piogge tropicali, figlie del clima impazzito, i pini di Roma (celebrati in musica da Ottorino Respighi) che, vessati dallo smog e dall’incuria, precipitano sulle auto e sui cittadini, i maestosi ulivi pugliesi, le palme e gli aranci di Sicilia aggrediti e straziati da animaletti invisibili.

E dall’altra sponda dell’oceano arrivano altre immagini drammatiche: quelle di Katia, di Irma (il più terribile uragano della storia recente degli Usa) e di Josè che devastano e uccidono. Tutto si abbatte sull’uomo, vittima e nel contempo carnefice incosciente che sta abusando del pianeta, che sembra sia arrivato all’apice di sopportazione!

C’è un’immagine, apparsa a settembre sui quotidiani, di un cavalluccio marino che nuota trascinando un cotton fioc: possiamo considerarla il simbolo del degrado del mondo e del mare inquinato dalla plastica (nel 2050, secondo il rapporto del World Economic Forum, negli oceani ci sarà più plastica che pesci). Questa foto, scattata da Justin Hofman in Indonesia, che si è guadagnata l’attenzione di uno dei più prestigiosi premi di fotografia naturalistica, denuncia che la nostra è l’epoca della “grande cecità” (Amitav Ghosh). Che cosa fare per il futuro? Uscire dall’insensibilità globale (ogni governo) ed esercitarsi a guardare un po’ più lontano del proprio naso (ciascun individuo).

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