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Buddha e Cristo, fratelli spirituali

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di Francesco Roat

Parte da una considerazione basilare e condivisibile l’ultimo saggio di Raffaella Arrobbio intorno alle figure parallele del Buddha e di Cristo, ritenendo vi sia una “unità essenziale” tra i testi buddhisti e quelli evangelici, evidenziando altresì un aspetto di non poco conto, ovvero che le predicazioni dei due Maestri ‒ al di là di ogni distinguo dottrinale o teologico ‒ esprimono alla fin fine la stessa esperienza spirituale. Ma non solo. A detta della studiosa italiana i suggerimenti forniti ai discepoli da tali fratelli spirituali (come sottolinea il titolo del libro) per far loro raggiungere un’ottimale condotta esistenziale finiscono con l’essere analoghi e soprattutto ben poco hanno a che fare con moralismi, catechismi e/o astratte teorizzazioni, bensì: “sono invece quanto di più concreto e pragmatico esista”.

Seguire le indicazioni di Gotama e di Gesù, allora, potrebbe permetterci la possibilità di quello che l’autrice indica come un vero e proprio balzo evolutivo verso una migliore condizione di vita-coscienza, all’insegna di “saggezza, amore, libertà dalle catene della sofferenza che caratterizza la modalità «normale» delle nostre esistenze”. E qui il vocabolo sofferenza va inteso nel senso più ampio del termine: non solo mero dolore fisico o psichico, ma insoddisfazione, vana ricerca di qualcosa che soddisfi appieno, timore di perdere ciò che si ha o si è, disagio nei confronti delle avversità e chi più ne ha, più ne metta.

Altra precisazione necessaria: seguire gli insegnamenti dei due Maestri non è questione di fede ingenua, di credenza in qualche essere superiore o divino. Fede autentica e matura è semmai quella di: “chi decide con chiara consapevolezza di compiere un percorso di trasformazione interiore, spinto dal profondo desiderio di scoprire un’altra possibilità di esistenza”; all’insegna di: “pace, tolleranza, equanimità, lontana da ogni integralismo e oscurantismo”. Un risultato come questo, comunque non credo sembri a nessuno poca cosa. Ma non si giunge ad un simile traguardo senza aver effettuato una radicale metanoia, una trasformazione del vecchio modo di pensare, sentire, giudicare e operare.

Sia il Buddha che il Cristo affermano che è necessario scompaia l’attaccamento all’ego; è la mistica morte dell’io ovvero ‒ per dirla con una puntualissima espressione dell’autrice ‒: “il superamento del limite della visione egocentrata e appropriativa”. È un abbandonare il continuo riferimento a se stessi e la insana condotta basata su avversione e attaccamento, brama di (sempre nuova) soddisfazione e timore che essa venga meno. Affinché si possa rinascere, in questa vita e senza attendere improbabili futuri paradisi oltremondani, trascendendo il livello ordinario dell’esistenza: “per accedere ad una dimensione assolutamente nuova e positiva, libera dalla sofferenza” (nel vasto spettro che, si diceva, indica detto vocabolo).

Va però ribadito che i detti dei due Maestri spirituali vanno intesi come indicazioni di percorso e non quali elucubrazioni concettuali. I loro discorsi rappresentano il classico dito che accenna alla luna. Guai a concentrare la nostra attenzione sul dito; è ben altrove il luogo dove rivolgere lo sguardo. Occorre quindi ascoltare per poi mettere in pratica quanto suggerito, non imbalsamare quelle parole davvero sacre in un gioco futile di interpretazioni intellettualistiche, sempre e solo formali e mai sostanziali. Sono infatti parole che invitano a compiere una precisa scelta di vita, la quale implica impegnativi mutamenti del modo in cui ci comportiamo con agli altri e con tutto quanto esiste. “Se non è utilizzato e messo in pratica nell’esperienza personale, quotidiana” ‒ nota Arrobbio con un’immagine azzeccata ‒ “l’insegnamento ha la stessa utilità di acqua versata in una tazza bucata: si sparge all’esterno e non disseta”.

Molte ed efficaci sono le citazioni riportate in questo bel libro, tratte da testi buddhisti e cristiani. Ne sceglierò due che mi paiono oltremodo valide. La prima, tratta dal Dhammapada, dice: “Coloro che ritengono essenziale il non essenziale e considerano non essenziale ciò che è essenziale, non ottengono l’essenziale, vivono nel campo delle intuizioni erronee”. Inessenziale è qui tutto ciò che è legato all’io e al mio (ambiti mai saziabili/appaganti appieno), mentre essenziale è apertura non egoica verso tutto e tutti. È non pretendere assolutamente nulla (onde poter gustare davvero tutto senza smania appropriativa). È il non aggrapparsi a nulla in una libertà spirituale che non conosce limiti o costrizioni. È badare a ciò che si è, nel profondo di noi stessi, dove abita l’unica gioia, l’unica quiete possibile.

La seconda citazione è tratta dal Vangelo di Luca, in cui troviamo scritto: “Non vi preoccupate di che cosa mangerete e che cosa berrete, e non siate inquieti; cercate piuttosto il Regno di Dio, e queste cose vi saranno date in più”. L’invito è evitare di tenersi occupati solo intorno a quanto può soddisfare il corpo e quindi evitare inutili accumuli/acquisti di cose materiali che non nutrono l’anima. E realizzare il Regno di Dio in noi ‒ qui ed ora, non in un fantasmatico futuro oltremondano ‒, in quanto, sempre secondo Luca: “il regno di Dio è dentro di voi!”. Ovvio che si tratti di un’espressione metaforica, poiché un tale stato o modo di vivere (assurdo ritenerlo una specie di stato teocratico) è nel segno dell’amore agapico (caritatevole), della condivisione, dell’accoglienza e della serena accettazione di tutto quanto può accaderci.

Si tratta dunque di non volere più nulla per sé stessi; di lasciar andare la presa non opponendoci all’ineluttabile venir meno di ogni cosa, destinato ad accadere presto o tardi nell’arco della nostra parabola esistenziale, lunga o breve che sia. Dice bene Arrobbio: “Chi non si afferra disperatamente a ciò che fugge scopre invece la bellezza, la gioia, la libertà insite nel gioco interdipendente di tutte le cose, soggetto compreso”. Altrimenti: Regno di Dio, Nirvāna, vita eterna, illuminazione restano solo definizioni aleatorie ed illusorie. Quel che conta è solo mettere in pratica, seguire gli insegnamenti similari di questi due Maestri. Facendo cessare l’attaccamento: a noi stessi come agli oggetti del mondo. Smettendola con la ricerca spasmodica della felicità, smettendola infine con il rimuginio rancoroso, l’invidia, l’odio, il dispiacere per non essere questo o quel personaggio ricco, idolatrato, potente. Ma che rimane allora? Resta la Realtà così come è ‒ risponde l’autrice ‒. Resta una pienezza di Vita appagante che nulla chiede, a nulla si oppone e basta a se stessa.

Ma il primo ostacolo in entrambi questi mirabili cammini di realizzazione ‒ andrebbe ripetuto non due ma mille volte ‒ è l’egoità: l’attaccamento alla nostra persona vista come monade slegata dal resto dell’universo mondo. Mentre tutto è interconnesso ed in rapporto di reciproca dipendenza, e se il nostro amore, la nostra compassione, la nostra cura è rivolta solo a noi, ogni percorso spirituale irrimediabilmente si blocca. Per esemplificare chiuderò con altre due brevi citazioni che non hanno bisogno di commento. La prima è del grande monaco buddhista Shantideva, la seconda di Paolo: l’Apostolo delle genti.

‒ “Tutta la gioia di questo mondo deriva dal desiderare la felicità altrui, tutto il dolore di questo mondo deriva dal desiderare la felicità per sé”.

‒ “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza, padronanza di sé”.

Raffaella Arrobbio, Fratelli spirituali. Gotama il Buddha, Gesù il Cristo. Due voci un’unica esperienza spirituale, Gabrielli editori, 2023, pp. 204, euro 18,00

 

 

 

 

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