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Bracco, de Giovanni e un grande silenzio
Accadono a volte delle coincidenze che innescano delle suggestive analogie: chiamiamole coincidenze analogiche. Il 10 novembre, per esempio, cadeva l’anniversario della nascita (1861) del drammaturgo napoletano Roberto Bracco, molto caro a me e a un esiguo gruppo di studiosi. Volevo dedicargli (come faccio quasi ogni anno in questa ricorrenza) almeno un post su facebook, ma poi ho rinunciato. La sera sono riuscita a fiondarmi a teatro per l’ultima replica napoletana de Il silenzio grande di Maurizio de Giovanni per la regia di Alessandro Gassman. Bene. Non tanto Il tema di fondo della pièce, quello del silenzio in ambito familiare, ma proprio quella la parola così reiterata nel corso dello spettacolo mi ha evocato nuovamente la figura di Bracco che con Il Piccolo santo si fece precursore in Italia del cosiddetto “teatro del silenzio”. Eccola, la coincidenza analogica (o, utilizzando un’espressione desunta dalla stessa commedia di de Giovanni, una “omogeneità emotiva”): nel giorno del compleanno dell’autore condannato al silenzio dal fascismo – che proibì la rappresentazione dei suoi testi a teatro impedendogli finanche di vincere il Nobel nel 1926 – il testo teatrale di un autore sempre napoletano viene a parlarmi proprio in quello stesso giorno di silenzio rievocandomi il teatro del silenzio…
Oh, sia chiaro, quello drammatico è forse il genere letterario maggiormente attraversato dal silenzio: la sospensione della parola, la pura gestualità, le pause significanti, gli atti beckettiani senza parole e la mimica facciale eduardiana: il teatro si nutre di parole non parlate. E in fondo anche l’inespresso della drammaturgia bracchiana è cosa ben diversa dal Silenzio degiovanniano. Qui si parla del silenzio fra le mura domestiche. E sono mura illustri, abitate dalla famiglia di uno scrittore famoso, uno da ben tre premi Strega. Eppure, il silenzio in questione non è molto diverso in fondo da quello praticato all’interno di tanti nuclei domestici: è quello costruito, giorno dopo giorno, attraverso le parole non dette, tralasciate, rimandate, evitate. Sono quei piccoli silenzi destinati a diventare grandi, insuperabili, insormontabili perfino per uno scrittore che vive di parole e con le parole. E se alla fine un ribaltamento imprevedibile ci racconterà qualcosa di inimmaginabile (e le librerie a parete ormai prive dei volumi portatori di parole sono un’ ulteriore conferma del carattere definitivo e irreversibile di quel silenzio), la mancanza – o le lacune – del dialogo rimane forse il senso profondo e attualissimo di questo testo davvero formidabile. E lo dico con tanta più convinzione perché ho sempre riscontrato una teatralità innata in Maurizio de Giovanni (lo avete visto leggere non solo i suoi testi, ma anche quelli di altri autori?), che trasferisce spesso in alcuni dei suoi personaggi più felici: che sembrano balzare fuori dalla pagina scritta con una, per l’appunto, urgenza drammaturgica. Alla scoppiettante brillantezza del testo si conforma la vivacità con cui Alessandro Gassman, in vena anche di autocitazione ironica, dirige con grande sicurezza il bel cast di attori, bravi tutti, Stefania Rocca, Paola Senatore, Jacopo Sorbini, ma sui cui grandeggiano un Massimiliano Gallo che sempre più si rivela attore dal multiforme talento e l’esilarante Monica Nappo che raccoglie degnamente la grande tradizione macchiettistica di una certa scena napoletana al femminile.
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