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Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa: la nostra

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di Frank Iodice

Mentre Milan Kundera scriveva che la vita è altrove, Bohumil Hrabal riusciva a rappresentare questo “altrove” attraverso il rumore invisibile delle parole, e queste diventavano materia pesante sulle spalle del protagonista del suo libro più tuonante: Una solitudine troppo rumorosa.
Quando, nel 1976 circa, Hrabal ha scritto questo racconto, non si è accontentato della prima stesura, né della seconda. L’ha scritto dapprima con lo stile del verso libero di Apollinaire, poi a righe piene come la prosa e la terza volta in un linguaggio rigorosamente scritto, che gli è sembrato il più adatto a rappresentare la dimensione del sogno in cui Hanta, il protagonista, cerca la sua felicità, cosciente che, come accade a tutti gli uomini che “si occupano del pensiero”, anche lui sembrerà non essere umano. Nulla di ciò che è davanti a lui riesce a trattenerlo dall’estraneazione propria di chi pensa intensamente e con trasporto ai propri mondi immaginari, quelli letterari o quelli dei sogni, mondi sempre migliori di quello in cui viviamo.
Hanta è “istruito contro la sua volontà”, costretto da trentacinque anni a lavorare in uno dei luoghi più terrificanti, più demoniaci per chi ama la vita e le parole di cui è fatta: il macero. E da trentacinque anni, mette in moto una pressa dalla quale non può più separarsi e che vuole portare con sé quando andrà in pensione. Una macchina che “esegue il movimento fondamentale del mondo” perché “tutto in questo mondo va contemporaneamente in avanti e tutto torna contemporaneamente indietro, come al comando dei bottoni verdi e rossi sulla pressa”.
Hanta è “infelicemente felice” perché avere la forza di investigare nelle viscere dei vecchi libri fino a “strappare via le interiora come polli appesi vivi ai ganci” e poi smembrarli, parola per parola, mentre queste si sciolgono tra i topi e il fango schiacciati dalla pressa, gli ha rivelato il male del mondo e l’impossibilità di essere realmente felici. Nel suo monologo ci fa sentire il corpo delle parole, la loro pesantezza, addirittura l’odore che queste sprigionano quando si sciolgono nei rivoli del sangue. Distruggere libri è un crimine contro l’umanità, è come schiacciare in quella pressa corpi vivi che urlano mentre le ossa si frantumano ad una ad una, e quando un pomeriggio i “macellai del Macello” arrivano con un carico di carte insanguinate, Hrabal, che è stato operaio come Hanta, ci regala una delle similitudini più belle della storia della letteratura: “Per difesa, nel primo pacco inserii aperto l’Elogio della pazzia di Erasmo, nel secondo pacco deposi piamente il Don Carlos di Shiller e nel terzo pacco, affinché anche la parola si facesse carne insanguinata, aprii l’Ecce Homo di Friedrich Nietzsche”. Sconvolto dalle mosche carnarie, folli e bramose di sangue fino a farsi distruggere con quella carta, ignare di una vita migliore fuori da quel deposito, proprio come noi, piccoli insetti lavoratori che ci rinchiudiamo nei nostri ufficetti fino alla morte, Hanta/Hrabal si rifugia nelle sue visioni e nei pensieri resi migliori dalla birra, una delle sue uniche amiche fedeli, mentre ci dice: “E io caricavo a bracciate insanguinate carta rossa bagnata, la faccia l’avevo piena di macchie di sangue, e quando schiacciavo il bottone verde, la parete della mia pressa pressava”.
Gesù, Laozi, Kant, Cervantes, Hoelderin, Goethe, il signor Sartre e il signor dottor Franz Kafka lo perdonano e lo ascoltano come fratelli lontani e premurosi. Hrabal confida loro tutto ciò che sta confidando a noi in questo dialogo dell’essere in cui tutti i piani della comunicazione si mescolano come nella pressa, i campi semantici si scambiano di posto e ci confondono perché solo dopo trentacinque anni di letture ossessive saremmo in grado di ascoltare. E quando alla sera anche io mi addormenterò con due quintali di libri sulla mia testa, col terrore che la loro vendetta mi colpisca una notte o l’altra, forse capirò cosa si prova a salvarne alcuni lasciandoli aperti alle pagine più belle nel cuore dei pacchi che continuano a venire fuori da quel magazzino. Hrabal usa la parola cuore perché anche nella morte è in grado di trovare vita pulsante grazie alla continua rinascita atemporale rappresentata dalla lettura.
(Foto: Bohumil Hrabal (Brno-Židenice 1914 – Praga 1997) è uno dei più grandi narratori degli ultimi decenni. Nella sua vita ha fatto mille mestieri, prima di morire (forse suicida) cadendo dalla finestra di un ospedale.)
Sono anch’io un animale, cammino a quattro zampe per scappare dalla mia solitudine. Persino le mosche carnarie folli riescono a farmi dimenticare la mia condizione di “felice infelice”. E allora l’unica cosa che mi resta da fare è bere ancora una birra insieme a Hrabal, perché l’alcol “aiuta a trovare i pensieri giusti”. Ma questo libro è molto più di un segreto interlocutore per ognuno di noi: è anche una denuncia dell’avanzare del capitalismo, una lotta letteraria contro l’annientamento delle diversità dell’io, voluto dalle grandi fabbriche (“operai vestiti come quando si va a giocare a baseball, guanti e berretti”), come quella che prenderà il posto del magazzino in cui Hanta ha lavorato da solo per tanti anni e sostituirà la sua fedele pressa con una tre volte più grande.
L’unica consolazione nel mondo “reale quanto immaginifico” di chi legge è l’amore primitivo offerto da due giovani zingare mentre spezzano il pane con una certa serietà. Non lo mordono mai, come si fa con le ostie, e diventano vergini sacerdotesse. Eppure sembrano due cavalli, anche loro non si salvano dall’accostamento al mondo animale cui tutti apparteniamo. Saranno loro a salvare Hanta dalla disperazione offrendogli il proprio corpo, ma non solo, saranno in grado di capirlo quando lo troveranno rannicchiato tra le carte in attesa di essere schiacciato. Perché per Hanta è meglio morire piuttosto che essere trasferito nella sezione della “schifosa carta immacolata”. L’ennesimo messaggio di quell’amore che noialtri cerchiamo invano mentre mandiamo al macero i libri vecchi, incuranti dell’unica verità che esiste sin da quando esistono i libri: l’amore che abbiamo perduto è intrappolato tra quelle pagine.
Che cosa c’è scritto allora in questo libro? “Se io sapessi scrivere”, dice Hrabal, “scriverei un libro sulla maggiore felicità e sulla maggiore infelicità dell’uomo. Sotto le mie mani e nella mia pressa meccanica periscono libri preziosi e io non posso impedire questo flusso. Non sono nulla più di un tenero macellaio”.
Una solitudine troppo rumorosa è quella che si fa spazio intorno a noi mentre leggiamo, o quella che sopravvive qui dentro, in qualche luogo indefinito da cui arriva ciò che Hrabal “osserva sbigottito e ne fa un testo scritto, il quale ha poi una sua vita autonoma e avventurosa…”
Vivere in un mondo immaginario, lungo quello che Hrabal definisce un “cammino letterario”, tuttavia, è molto rischioso. Si rischia di connettere se stessi con ciò che c’è intorno, il che potrebbe sembrare affascinante, ma connettersi vuol dire anche “sentirsi colpevoli di qualsiasi cosa succede dappertutto”. Un sogno allora, o l’ennesimo incubo? Questo non posso saperlo perché anche io vivo come Hanta, immerso nei miei libri, con la compagnia degli autori e delle autrici a me cari, vivi o morti, sempre angosciato al pensiero di sollevare lo sguardo da queste righe. E anche io non sono stato in grado di scegliere.

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