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Letteratura

Baudelaire e le donne: la Bellezza della dannazione

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In occasione del bicentenario della nascita di Charles Baudelaire (1821), Gisella Blanco ci offre questa sua riflessione sull’umana complessità di un gigante della Letteratura

 

di GISELLA BLANCO

Con la dovuta ironia e una saggia misura di leggerezza, che sono filtri necessari ove la critica continua a cimentarsi su temi e soggetti di cui, nel bene e nel male (locuzione che non è stata mai così calzante come in questa sede), si è sempre parlato, proverò ad accennare alla figura mitologica di Baudelaire – e sarà solo un quadretto espressionista da cui afferrare la sensazione, l’ispirazione fugace di uno sguardo di passaggio – attraverso il suo rapporto con le donne, almeno quello letterario e, in particolare, poetico.

Se il maledettismo è esattamente quella centralità centripeta dell’io nel cuore del più lucido e intenso Romanticismo, cinico quanto basta verso le espressioni più melense di se stesso e perpetuo ispiratore dei poeti di ogni altra epoca, Baudelaire è stato l’ago perfettamente in bilico e magistralmente in equilibrio tra abisso e altezza, ideale e perdizione, Assoluto e incompiutezza, Elevazione e Male, con la emme quasi sempre maiuscola.

Nel mistero interioristico, pressoché inesplorabile, di tutti gli autori (e di alcuni più di altri), sembra abbastanza evidente che Baudelaire non rinunci alla fascinazione per l’orribile, che ha dovuto reinterpretare con un registro comunicativo peculiare e specializzato, rispettoso (o perlomeno gentilmente consapevole) della tradizione (si pensi all’uso del verso alessandrino) ma capace di risultare originale: a tal proposito, Gautier osservava che “Per dipingere queste decomposizioni che gli fanno orrore, egli ha saputo trovare quelle sfumature morbidamente ricche della putredine più o meno avanzata (…) che corrispondono all’autunno, al tramonto del sole, alla estrema maturità dei frutti, e all’ora estrema delle civiltà”.

In questo tormentato gioco al massacro, in cui il dolore è solo una delle lusinghe del piacere, l’ambiguità esistenziale non può che abbracciare anche il rapporto di Baudelaire con la donna, a cui chiede “Ma dimmi/ vieni dal profondo cielo o sbuchi dall’abisso?”, mentre invoca un possesso totale, fisico e spirituale, che giustifica nell’aspirazione alla catarsi una visionaria tensione alla Bellezza con la b maiuscola in cui si mischiano, si esaltano e si inceneriscono la voluttà carnale e l’istinto alla gioia (“Bellezza, mostro enorme di spavento e ingenuità!/ Cosa importa, in fondo, che tu venga dal cielo o dall’inferno?/ Il tuo occhio, il tuo sorriso, il tuo piede aprono la porta/ d’un Infinito che amo e non ho mai conosciuto”). Ed è proprio in quel vacillare gnoseologico in cui l’autore ammette di accettare l’incertezza sulla natura di tale musa che la meraviglia e l’orrore si uniscono nello stesso impulso poetico alla vita. Ma sarà solo un frangente, un momento della parola poetica che non risparmierà all’amore la dannazione, alla donna angelicata l’attrazione al disprezzo, all’erotismo escatologico la perversione più bieca della tortura, perché il Male per Baudelaire (e i filoni del Romanticismo che non si studiano a scuola) non solo si profetizza ma si subisce e si fa: “E allora, mia bellezza, di’ pure ai vermi/ che ti mangeranno di baci,/ che ho conservato la forma e la divina essenza/ dei miei amori decomposti”.

Se l’istinto (condivisibile) delle sensibilità contemporanee è quello di rabbrividire, seppur con ossequio, alla ruvidezza di certi versi ben poco clementi verso le donne, si può ipotizzare che proprio nell’esaltazione dell’oscenità e dello scempio esistenziale si annidi quella più subdola paura d’esistere (e di relazionarsi con se stessi e con il diverso da sé) che accomuna tutti gli uomini, perfino i grandi poeti come Baudelaire che, dopo aver scritto alcuni fra i suoi versi più crudi, chiede al suo gatto di lasciarsi accarezzare mentre pensa alla sua donna il cui sguardo è freddo e profondo, come certi amabili abissi che non si possono sondare.

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