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Amare un figlio speciale

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L’esperienza di una donna che lotta con la fragilità del figlio, che si riflette nella disabilità della società che non è all’altezza del suo compito, quello di rendere la vita dei cittadini più semplice.  

Valeria Parrella ha scritto un libro interessante, perché intreccia letteratura e vita e perché racconta, senza retorica, il rapporto intenso, vero e complesso fra una madre e il figlio disabile, che non può mai essere davvero autonomo e ha bisogno, quindi, di una presenza materna più forte e intensa. Questo aspetto, a mio parere, è una delle chiavi più belle del libro, perché la presenza della madre non è opprimente né soffocante con il suo necessario e imprescindibile eccesso d’amore. E perché la Parrellariesce ad entrare in una dimensione nella quale sembra non ci sia spazio per nessun altro e invece mostra la leggerezza e gli ostacoli di un rapporto appesantito dalle circostanze e della quotidiana fatica di semplificare ciò che altri rendono più complesso: come le burocratiche e inutili frasi di alcuni medici che si sforzano sì di diagnosticare ma  sempre da un vetro opaco che occlude la loro vista. L’autrice, quindi, nel suo delicato e sensibile racconto, descrive la sua esperienza di donna che lotta quotidianamente con la disabilità del figlio, che si riflette nella disabilità dello Stato e della società come collettività che non è mai all’altezza del suo compito, quello di rendere la vita dei cittadini più semplice,  cogliendo e facendo cogliere al lettore i fili più delicati della convivenza fra due persone e parallelamente con la terza, il padre del bimbo. Ci riconosciamo, anche se non conosciamo la disabilità, in molte frasi del libro, che come uno specchio mostra stati d’animo che si riflettono in tante circostanze quotidiane, dove solitudine, sconforto, inadeguatezza, voglia di lottare e rabbia si mischiano ad altri frammenti della percezione. Anche in questo, Tempo di imparare si mostra come un libro interessante, perché coglie e reinterpreta molti aspetti del sentire comune. Difficile raccontare una storia così, al di là che sia autobiografica o meno, perché molta letteratura ha cercato di interpretare un tema tanto delicato, a volte fallendo e a volte toccando vertici di pura letteratura, che interpreta e arricchisce la vita e spesso ne ha dato un ritratto verosimile e offuscato a causa di una trama superficiale o incompleta. In questo caso, invece, si sente un elemento di verità che coinvolge anche chi non vive la difficile esperienza di un bimbo ostacolato dal suo corpo. Valeria Parrella, con questo libro edito da Einaudi (pp.136, euro 17,00), segna il tempo in cui si deve imparare da un’esperienza dolorosa senza  risparmiarsi nulla. E infatti, il racconto riesce a raggiungere il vertice della pura letteratura dove sentimenti, emozioni, stati d’animo, sottintesi, metafore, solitudine, smarrimento, senso di abbandono e dubbio, si intrecciano per disegnare e contemporaneamente tracciare due personaggi che trovano nelle loro fatiche quotidiane luce e bellezza. La lingua è un elemento fondamentale in questa ricerca. Perché è uno strumento che Valeria Parrella usa in modo strano, come se avesse in mano uno strumento preciso e volontariamente lo rende impreciso per costruire frasi ancora più originali di quelle che il suo talento o la sua cultura le permetterebbe. Intendiamoci, lo stile è suggestivo e preciso nella sua ricerca di un’immagine  o di una descrizione, ma si piega a volte per cercare originalità e nuove forme sperimentali che reggono al ritmo della narrazione. Perché per raccontare questa sua storia ci vuole coraggio, talento e uno strumento che si sottoponga a torture e storture per portare alla luce il senso pieno del suo racconto. La trama è importante, naturalmente, ma si svolge attorno ad un piccolo miracolo, che avviene nelle prime pagine del libro, la consapevolezza che si è di fronte ad un libro che segnerà e porterà molte domande nella mente del lettore.La Parrella è un’autrice notevole che si impone su un panorama letterario ricco ma a volte ripetitivo dove frasi che sembrano coraggiose diventano statiche, con lei avviene l’incontrario: frasi che sembrano retoriche aprono nuove immagini e nuove suggestioni.

 

Fulvio Caporale

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