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All’inizio era il buio

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di Francesco Roat

John Martin Hull (1935-2015) è stato docente di teologia e scienze religiose all’Università di Birmingham. A seguito di una patologia degenerativa della retina, nel 1983, ha dovuto subire la perdita definitiva della vista. Ciò non è stato tuttavia di ostacolo all’insegnamento e alla pubblicazione di numerose opere, tra le quali spicca il saggio: In the Beginning There Was Darkness (All’inizio era il buio), recentemente tradotto in italiano dalla poetessa Anna Maria Farabbi, a cui si deve pure una puntuale nonché appassionata premessa al testo.

Apertura introduttiva in cui si denuncia l’“interpretazione mistificante” che la nostra cultura occidentale ha dato dell’oscurità, associandola ad un ambito negativo, infero e all’insegna dell’inquietudine. Mentre, come dovrebbe essere ovvio, luce e buio sono entrambi aspetti paritetici del giorno ‒ che appunto si suddivide in dì e notte ‒ e il parallelismo tra tenebre e paura/male, come quello fra chiarore e serenità/bene, è una costruzione tutta ideologica.

La cecità inoltre, oggi molto più che in passato, è associata a una delle perdite più dolorose: quella dell’immagine: dea oltremodo venerata dai più, che non riescono a fare a meno di compulsare coattivamente e in continuazione il proprio cellulare o di guardare filmati in TV. “Abitiamo quotidianamente l’immagine ‒ nota Farabbi ‒, ne siamo at/tratti, inghiottiti, intossicati, resi dipendenti, devitalizzati dentro un processo di consumo/consumismo che si basa soprattutto sull’apparenza, su ciò che appare, su ciò che abbagliando induce e detta il bisogno di una riconoscibilità visibile, folgorante”.

Il cieco quantomeno si sottrae a tali miraggi, e se è saggio ‒ come Hull ‒ può penetrare la superficie delle cose ed entrare in profondità: di se stesso e dell’altro da sé. Non a caso la mitologia vede nel sapiente non-vedente ma chiaroveggente un indovino (Tiresia, Anchise, Fineo) e in alcune tradizioni esoteriche si esalta, in luogo dei due occhi ordinari, il cosiddetto terzo occhio: organo privilegiato in grado di percepire l’invisibile. Chi è cieco non è dunque distratto dai fenomeni visivi, facendo piuttosto attenzione all’ascolto e al tatto, anche tramite la lettura di un testo braille in caratteri speciali a rilievo: lettura che diviene maggiormente concentrata e meditativa. Giusto come quella che fa Hull, immergendosi nella Bibbia in un vero e proprio corpo a corpo con le Sacre Scritture, da cui trae versetti emblematici/significativi intorno alla cecità (ma non solo): brani che egli ripropone al lettore illuminandoli attraverso il suo peculiare punto di vista prospettico.

Quindi il Nostro scrive innanzitutto per i vedenti, suggerendo loro un’ottica alternativa di porsi nei confronti dei passi biblici che l’autore esplora mediante una ermeneutica originale, la quale si avvale di rimandi autobiografici, grazie a cui egli chiarisce ancor meglio i punti più oscuri o problematici dei testi presi in esame. Ma non si tratta di un’opera accademica per addetti ai lavori o solo per credenti. Il registro utilizzato è colloquiale e la scrittura risulta tersa, luminosa, davvero coinvolgente. Hull sa bene che pure nella Bibbia la cecità è spesso associata al peccato, all’ignoranza e all’insensibilità, venendo persino vista come una sorta di castigo divino.

Nei vangeli alcuni ciechi vengono guariti da Gesù e ad una lettura superficiale pare che la cecità, per il Cristo, sia un male da eliminare onde consentire ai non-vedenti un’esistenza più agevole. Ma Hull ci ricorda che, invece, di una guarigione spirituale si tratta. La cecità da guarire (come altrove la paralisi) è costituita dall’ottenebramento interiore, dall’incapacità di scorgere una direzione di senso lungo la quale dirigere il proprio cammino. Ed il miracolo vero ‒ non già la riacquisizione organico-fisiologica della vista ‒ è quello di rendersi conto di essere ciechi dentro e di iniziare così a vedere in modo nuovo eventi e persone. È mutare atteggiamento, è salutare discernimento, è autentica trasformazione/illuminazione di mente e cuore.

Ma lasciamo l’ultima parola all’autore che non magnifica certo la cecità, però la accetta, la accoglie paradossalmente come un dono atipico di Dio; ad onta delle numerose difficoltà/insicurezze che il non-vedere comporta. Quindi il cieco: “Oscilla con il proprio stato d’animo, con gli accadimenti del giorno, con i propri sogni e con le proprie speranze, e per molti altri fattori ignoti e innominabili. Felice è quella persona cieca, tuttavia, per cui la similarità della luce e del buio è divenuta caos, il cui umano punto di vista è messo in discussione, qualificato, e, talvolta, rapidamente rovesciato. Nella condizione di esistenza oltre luce e buio, si è condotti in una strana intimità con il divino”.

John Martin Hull, All’inizio era il buio. Conversazioni di un cieco con la Bibbia, Al3viE, 2022, pp. 215, euro 15,00.

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