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Non solo libri

Alla ricerca del tempo perduto – Another end e l’ultimo orizzonte posticipato

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Piero Messina è senza ombra di dubbio fra i cineasti di nuova leva più interessanti. Il regista de “L’attesa” (2015, con Juliette Binoche, liberamente ispirato al dramma “La vita che ti diedi” di Pirandello, Mondadori, 1984), esordio da manuale presentato alla “Settantaduesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia”, della seconda stagione di “Suburra” e de “L’Ora – Inchiostro contro piombo”, fra le fiction televisive più ragionate e meglio realizzate degli ultimi anni, torna nelle sale (dal 21 marzo) con un nuovo sorprendente lavoro: “Another end” (Indigo Film, Rai Cinema, 01 Distribution, già in gara alla “Settantaquattresima Berlinale” e proiettato in anteprima internazionale al “Bif&st” nella serata dello scorso martedì 19 marzo). Una grande storia d’amore, una trama piangente che balla un lento con «la più bella delle bugie / il più studiato degli inganni / il più persuasivo dei discorsi» (l’amore – da “Per il tuo bene”, Madame, “L’amore”), all’interno di una balera, posta sul limite fra utopia e distopia fantascientifica, dai vaghi colori britannici. L’abbiamo sentito al telefono, fra una proiezione e l’altra, dopo aver partecipato alla prima barese. Aveva la voce stanca di chi è felice. Piero, ci racconta come è arrivato a questa storia? Storia d’amore, storia drammatica, storia di fantascienza? Il film ha avuto una gestazione molto lunga sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista produttivo. Nasce da un mio desiderio. Ero a Venezia con Nicola (Giuliano, suo produttore n.d.r.) a presentare “L’attesa” e stavamo passeggiando lungo questi giardini… Lì, stavo giusto dicendogli che, dopo “L’attesa”, avrei voluto fare un film altrettanto intimo, personale, ma che al contempo giocasse un po’ col genere… Volevo quindi provare a ripetere ciò che avevo fatto, ma provando a trovare un immaginario, una struttura narrativa che potesse portare a un pubblico più largo. In quel periodo avevo in mano un progetto molto diverso da “Another end”, una sceneggiatura di fantascienza rivoluzionaria di cui però mi colpiva un aspetto: la possibilità, per l’appunto, di trasferire la memoria, la coscienza delle persone (in “Another end” di quelle decedute n.d.r.) in dei corpi ospiti. E sempre lì mi sono detto che sarebbe stato interessante utilizzare questo presupposto narrativo – la scissione, in un certo senso, della mente (e del cuore, metaforicamente parlando n.d.r.) dal corpo – in una storia d’amore. Questo perché questa idea aveva generato in me delle domande, tipo: «Quando ami qualcuno, cosa ami veramente di questa persona? Le parole, i ricordi, ciò che pensiamo di sapere dell’altra persona o è importante anche la dimensione corporea dello stare, dello stare insieme?». Personalmente credo che sia molto sopravvalutato ciò che in una relazione ha a che fare con tutto ciò che «astratto», mentre è certamente sottostimato ciò che ha a che fare con la «sensualità», intesa come ciò che passa attraverso i sensi. Quella realtà sensitiva che determina le nostre scelte, le emozioni, i nostri rapporti, che è un qualcosa che sta a mezz’aria, fra il visibile e lo spirituale propriamente detto. Ecco, realizzare il film per me è stato un po’ esplorare queste domande, non avendo risposte. Questo mistero ha inesorabilmente generato delle immagini in me, come l’immagine conclusiva del film che ha molto a che fare con la mia idea di amore. Ora una domanda un po’ più difficile. Il suo film senz’altro entra a gamba tesa negli ambiti della tanatologia (Ultimamente leggevamo in merito Davide Sisto, “Porcospini digitali – vivere e mai morire online”, Bollati Boringhieri, 2022), della bioetica e delle dinamiche post-digitali. Crede sia giusto intendere, laddove questo sia già accaduto almeno in parte (e qui si pensi, per esempio, al peculiare caso del giornalista americano James Vlahos e del suo «dad-bot»: un bot reso capace di rispondere, carico d’informazioni, registrazioni e ricordi del padre di James, Jonh, deceduto a causa di un cancro, alle domande di James in un modo molto simile a quello secondo cui avrebbe risposto John), la morte in questa maniera? Pensa siano giuste queste «appendici di vita»? Lei dice rispetto al rapporto fra la morte e le possibilità di eluderla, giusto? È complesso. Diciamo pure che è quello che l’uomo fa dall’inizio dei tempi. Cercare di esercitare un potere sulla morte. L’ha fatto con la religione, in particolare con la liturgia, con tutto ciò che è tradizione, rappresentazione… Tutti modi per trasfigurare, eludere o dare un senso alla morte, che era ed è qualcosa di talmente grande e spaventoso per l’uomo… Naturalmente, ora che andiamo avanti, tutto l’aspetto più liturgico, spirituale, rituale sta lasciando il passo a quella che è un’evoluzione che ha sempre più a che fare con la tecnologia. Ecco, io penso che sia, quello di cui stiamo parlando, non una trasformazione sostanziale dell’uomo, ma una declinazione nuova scaturente da ciò che oggi siamo diventati: esseri umani sempre più influenzati dalla tecnologia. Ma, in fin dei conti, stiamo solo facendo in modo nuovo quello che i nostri antenati facevano. Ora lo facciamo non più davanti ad un totem o davanti ad un fuoco, in un tempio o in una chiesa, ma iniziamo a farlo in maniera diversa. Per quanto concerne poi la tecnologia in sé, l’unica cosa che posso dirle è che non mi spaventa. Mi preoccupano piuttosto i tempi della tecnologia. Il problema sta nel fatto che la tecnologia si sta evolvendo in maniera esponenziale e in modo sempre più veloce e quello che mi preoccupa è che ci troviamo, ormai quasi sempre, a vivere le conseguenze delle nuove tecnologie prima di averle discusse e razionalizzate. Basti pensare, senza giungere a parlare di intelligenza artificiale, alla tecnologia dei social: noi abbiamo iniziato a interrogarci su quanto queste nuove forme di comunicazione potevano influenzare le nostre vite nel momento in cui tutto era già accaduto. Ecco, questo mi preoccupa. Il fatto che siamo più lenti, in quanto esseri umani, rispetto a ciò che stiamo producendo. Riagganciandomi a quanto detto – considerando che nel film centrali sono, assieme all’amore, la morte e il dolore – non sarebbe meglio, piuttosto che essere così «occidentali» e «occidentalisti», quindi così bramosi di eludere la morte e il dolore, essere più «orientalisti», più stoici? Essere più disposti ad affrontarli a viso aperto? Ma sicuramente. Per quanto riguarda l’aspetto etico, anzi non solo etico ma anche esistenziale sono d’accordo. Il dolore va affrontato, attraversato soprattutto… È quello che un po’, altresì, spero che il film racconti e cioè che l’unica via per la salvezza è quella che ad un certo punto prevede che si sia pronti ad attraversarlo il dolore, più che ad affrontarlo. Nella pellicola, i personaggi – Sal (Gael García Bernal) e sua sorella (Bérénice Bejo) in particolare – cercano di eludere fino all’ultimo, fino all’ultimo maldestro tentativo quel momento e più lo aggirano, più restano intrappolati in un non-vivere, in un dolore altrettanto insopportabile… Mentre nel momento in cui – loro malgrado per alcuni personaggi, per altri invece è una scelta assennata – questi affrontano e attraversano il dolore, ecco che la salvezza è loro. Io di questo sono convinto. Detto questo, capisco la difficoltà del mettere in pratica ciò e comprendo assolutamente la debolezza dei personaggi che non riescono a farlo, procrastinando la fine. Nel finale di questo film, che per noi è un film d’autore, concentrico, che adopera il genere con parsimonia e maestria, v’abbiamo scorto lo stesso meccanismo che chiude “Shutter Island” di Scorsese (lungometraggio tratto dall’omonimo thriller di Dennis Lehane, Longanesi, 2021). Ci sbagliamo? “Shutter Island” è un film che mi piace molto, però non ci ho mai pensato. Forse ho più pensato ad alcuni film di Cronenberg, che hanno lo stesso meccanismo… Quello dello svelamento finale che ribalta totalmente la prospettiva. Quando li ho visti, mi sono piaciuti a tal punto che sono sicuro che qualcosa di quelli sia rimasto intrappolato in me. Poi, quando dico una cosa non è detto che sia una verità inconfutabile… Nel processo creativo l’inconscio gioca un ruolo fondamentale. È sempre una questione d’amore. Se potesse, lei ricorrerebbe a questo tipo di cura, al percorso «AETERNA» (con «assenti» e «locatori») per prolungare, anche solo pro tempore, la vita di un caro scomparso? Sì. Le ho detto che da un punto di vista etico e prettamente razionale non sono d’accordo con l’utilizzo di questa tecnologia, ma quando ho scritto il film… Ecco, quello che fa nel film il personaggio di Gael (Bernal n.d.r.), Sal, è esattamente quello che avrei fatto io. L’amore, quindi, avrebbe vinto sul raziocinio. Avrei fatto senz’altro le stesse scelte di Sal, avrei sbagliato come lui, mi sarei perso… Mentre scrivevo e m’immedesimavo, speravo anche, fossi stato effettivamente al suo posto, di ottenere il suo stesso risveglio, la sua medesima liberazione…Quel torpore, quegli occhi socchiusi, quel conclusivo, ad un tempo assoluto ed estraneo, riconoscersi.

 

Claudio Mezzina

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