Lo Zibaldone
Alessandro Zarlatti: un salto attraverso il vuoto
Un salto, “un atto inspiegabile che trasforma la storia” (p. 446), qualunque storia credo io. Zarlatti pensa in grande, non ci sono dubbi e, attraverso il suo romanzo ci lascia intraprendere un lungo viaggio, difficile, dal sapore un po’ dantesco se vogliamo, dove la meta ultima, però, non è certamente la redenzione dai propri peccati. La salvezza, in fin dei conti, è solo un’onda inafferrabile. Niente di definitivo. Niente di sacro. Perché sacra non è la nostra salvezza, ammesso che ce ne sia concessa una alla fine di tutto. Sacra è solo la Vita. Quella terrena. Quella che passa attraverso le cose di questo mondo finché ci sia un respiro ad animarle. Quella vita fatta di carne e sangue, di ansie, paure, rese dei conti, sogni ad occhi aperti. Di frustrazione, solitudine, incertezza. Dove l’esistenza della gioia presuppone quella del dolore, quasi per forza. E dove i sogni si scontrano sempre con la meschinità dell’esistenza.
Dentro al calderone della Vita c’è tutto ciò che serve a far sì che la magia di questo romanzo si compia: c’è la bellezza ma anche tutta la bruttezza di questo mondo e di chi lo abita soprattutto.
Le vicende che Zarlatti ci racconta viaggiano tutte su un’unica linea immaginaria, che si staglia sin da subito lontano, anzi lontanissimo da qualsiasi pregiudizio, dai concetti di giusto o sbagliato, troppo sacrificanti, troppo riduttivi per rappresentare i fuochi entro cui si muovono le storie dei personaggi di questo romanzo. Non esistono stereotipi o esistenze tipo nel mondo zarlattiano. Spesso quelle che lo scrittore delinea sono “esistenze forzate” che non hanno possibilità di scegliere una propria direzione, travolte come sono dalla violenza degli eventi, schiacciate dal peso di una casualità le cui conseguenze, spesso dolorose, sembrano non avere fine.
Eppure non ci troviamo mai al di sopra di quella realtà che conosciamo, coi suoi punti di riferimento sicuri e il terreno sotto ai piedi. Quella realtà in cui la logica fa da padrona e la vita degli uomini diventa un puro calcolo delle probabilità. No, non siamo al di sopra di tutto ciò, semmai siamo al di sotto. Inghiottiti dentro una spirale di eventi che seguono, a dispetto di tutte le nostre aspettative, inclinazioni puramente casuali. A volte devastanti. A volte salvifiche. Le variabili possono essere tantissime, l’unica costante è quel dolore, tutto umano, che accompagna le vite di quasi tutti i personaggi. Le loro scelte, cosi come i loro sogni sembrano segnati irrimediabilmente da un marchio doloroso, una ferita ricucita dall’interno, a suon di battaglie e tregue continue con se stessi. Si mette un piccolo rattoppo e si va avanti. Senza lieto fine, intendiamoci, senza mai accontentare l’ingenuo lettore che, da buon lettore, vorrebbe vedere quelle ferite guarite dall’unguento miracoloso di una divina provvidenza.
Chiariamo un concetto, però, prima di continuare. Non ci troviamo di fronte ad uno scrittore che, con una buona dose di maestria (insita nel mestiere stesso dello scrittore e tipica di chi con le parole sa creare magie), si diverte a deviarci da percorsi di lettura prestabiliti. Le aspettative di noi lettori vengono piuttosto tradite dal gioco sottile di uno scrittore che, con grande coraggio e onestà intellettuale, ci toglie il terreno sotto ai piedi, per forza di cose, per via di una scrittura che lo costringe all’imperativo categorico della Verità. Niente espedienti per indorare la pillola. Niente bugie, niente sentieri letterari costellati da impercettibili punti di riferimento che ci guidano lungo il cammino della lettura, ma l’urgenza, solo quella, di mettere il lettore di fronte alla Verità della vita, alle cose che accadono nostro malgrado e alla piega casuale che gli eventi possono prendere. In una dimensione che è pari ad un vuoto di senso, ad un’allarmante privazione dello stato di necessità intorno al quale gravitano tutti gli avvenimenti. Un vero e proprio processo di svuotamento delle cose e delle persone, per ricreare un grado zero, uno spazio bianco su cui poter riscrivere la propria storia, qualunque essa sia. L’importante è che sia vera.
Quando la letteratura assomiglia incredibilmente alla vita. Questo è Zarlatti. Uno scrittore che non dà mai risposte definitive, ma piuttosto ci fa porre delle domande.
Quello che lo scrittore ci fa compiere, non è un salto nel vuoto, semmai Zarlatti in quel vuoto ci passa attraverso. E con lui tutti i suoi personaggi, da Mia a Lola, da Corrado a Sheilla, da Acosta fino al comandante Mata. Persino lui. Dentro al vuoto di senso della propria vita ci passano proprio tutti. Qualcuno resta intrappolato sottoterra per anni, qualcuno resta prigioniero dei propri limiti, qualcuno dei propri sogni o ideali e qualcun’altro, invece, delle proprie depravazioni.
Ogni personaggio procede con la propria vita, se la trascina dietro come il più pesante dei fardelli e noi siamo lì, sempre lì, a fare il tifo per qualcuno di loro, a piangere, gioire, ad arrabbiarci, disperarci. L’importante è che, nel silenzio della lettura, noi ci siamo. Complici di quelle esistenze che tanto ci sconvolgono e tanto ci assomigliano. I nostri cuori battono all’unisono con quelli dei personaggi zarlattiani perché loro, in fondo, rappresentano tutti noi, sono lo specchio torbido dei nostri pensieri e delle nostre debolezze. Sono quello che non vorremmo essere, ma che siamo. Esseri umani.
E allora grazie Zarlatti. Grazie per averci permesso di esserci. Di saltare insieme a te dentro una dimensione esistenziale che spesso preferiamo fuggire. Grazie per la tua onestà e per il tuo coraggio. Ma soprattutto grazie di credere ancora che l’Amore sia l’unica risposta.
Alessandro Zarlatti
Il Salto
Ouverture, 2015
pp. 564, Euro 15,00
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