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Il perfezionamento di sé

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di Francesco Roat

Nell’antico mondo culturale greco con il vocabolo askesis veniva indicato l’esercizio/allenamento (o la somma di esercizi) da compiere onde poter giungere alla resa ottimale d’una prestazione, che in origine faceva soprattutto riferimento alle gare atletiche, le quali costituivano in primis una lotta (athlos) con se stessi più ancora che con gli avversari. Askesis, col tempo, venne ad indicare altresì ogni metodologia educativa rivolta al progresso o alla crescita personale ed il vocabolo sempre più si riferì alle varie forme di realizzazione spirituale, alla cura di sé non certo meramente corporale ma animica. Finché tale parola finì per equivalere ad un processo di vera e propria ascesi-ascesa onde elevare il soggetto ‒ per dirla con Pierre Hadot ‒ alla vita dello Spirito. Le varie prassi dell’askesis, presso gli antichi filosofi ellenici, costituirono dunque quella che in altri termini potrebbe essere definita un’arte del vivere ed insieme un’ars moriendi; in quanto la filosofia, ovvero l’amore per la sapienza, lungi dal limitarsi a conoscenza astratta o paradigma teoretico, equivaleva allora al saper vivere al meglio ed in parallelo al sapersi misurare senza tema o angoscia col limite umano per antonomasia: la morte.

Giovanni Ferraro, in un suo assai puntuale, pregevole e scorrevole saggio intitolato Áskesis, ripercorre la storia delle prassi ascetiche partendo da colui il quale può essere considerato il principe dei mistici (Platone) per giungere sino ai mistici cristiani, tenendo pur conto delle pratiche ascetiche riscontrabili nell’Islam (sufismo), e nel buddhismo, compresa la sua variante zen. D’altronde, non certo solo in Occidente, per effettuare un autentico cammino di consapevolezza filosofica ‒ dice bene l’autore ‒: “occorre praticare un completo ri-orientamento, una metánoia, una trasformazione interiore che converta l’attenzione alle concezioni e agli scopi che la filosofia si propone”. Purtroppo all’alba del Terzo Millennio l’unico esercizio ascetico praticato dalla maggioranza è solo all’insegna dell’individualismo/egocentrismo più smaccato e volto ad aumentare unicamente le proprie prestazioni ed il mero profitto materiale. Accanto a ciò possiamo riscontrare, come qui sottolinea Ferraro, una sorta di limitante algofobia: il timore cioè ‒ coniugato alla totale avversione ‒ noi confronti di qualsivoglia sofferenza, da evitare (o esorcizzare) ad ogni costo.

Così oggi imperversano manuali e tecniche di crescita personale volti a raggiungere il successo in una iper-commercializzazione del vivere, che ha tuttavia smarrito ogni ambizione dello spirito, per dirla con François Jullien, e rigetta ogni forma di abnegazione, mirando semmai alla sola inesausta acquisizione. Quasi che la sete di trascendenza o l’aspirazione alla serenità interiore non dimorassero più nei nostri cuori, abitati da inquietudini ed ansietà mai sopibili. Persino i desideri che cerchiamo vanamente di realizzare hanno perso la loro funzione primaria di alludere ad una mancanza radicale che ci dovrebbe far rivolgere altrove, aprendoci a quell’Altro che con formula metaforica è stato opportunamente chiamato Dio ‒ da dies: luce diurna e da Dies: divinità creatrice della terra e del cielo ‒, detto altresì poeticamente Amore: energia agapica che move il sole e l’altre stelle. Perciò, tornando a citare Ferraro, forse soltanto: “Aprendosi all’alterità assoluta di Dio e all’alterità assoluta dell’altro uomo, l’essere umano realizza se stesso”.

Quindi, riprendendo Foucault ‒ secondo il quale sin da Platone l’autentica filosofia non è riducibile a mathesis, a conoscenza teorica, bensì ad askesis: a pratica volta alla cura ed alla trasformazione di sé ‒ Ferraro rivolge poi la sua attenzione ai Padri cristiani ed ai loro esercizi spirituali miranti ad una conversione, ad una metanoia appunto, che prevede una nuova nascita (Gv 3,3) ed un nuovo modo di guardare al mondo, all’io, agli altri e a Dio. Esercizi ascetici che puntano molto sulla quiete (hesychia) e sulla vigile/costante attenzione accogliente (prosoche) che è poi la vera preghiera (proseuche); entrambe infatti si traducono in filantropico amore per il prossimo. Non va inoltre dimenticato come: “L’esercizio dell’attenzione porta allo sviluppo della consapevolezza, la quale viene concepita dalle varie forme di meditazione orientale e occidentale come uno strumento di trasformazione interiore”.

Paradossalmente (ma non troppo), tuttavia, la cura di sé dovrebbe farci approdare alla consapevolezza che l’eccesso di sollecitudine nei confronti del nostro piccolo io personale (philautia) finisce per risultare davvero controproducente. L’ipertrofia egoica risulta allora il male peggiore; così come ogni forma di velleitaristica o volontaristica pretesa, che equivale all’incapacità di accettare ciò che Simone Weil chiama l’inevitabile necessità. Persino la stessa ricerca di miglioramento o perfezionamento spirituale secondo Meister Eckhart è errore, hybris, tracotanza. Ogni tradizione religiosa, del resto, ha sempre considerato un grave impedimento alla realizzazione spirituale quella che Marco Vannini ha chiamato la malizia della volontà propria.

L’induismo, il buddhismo, lo zen ed il taoismo deprecano il ripiegamento egocentrico su di sé (di cui la volontà personale è la massima espressione). Altrettanto fa il cristianesimo (che considera sublime l’abdicazione alla propria volontà da parte di Gesù nell’orto degli ulivi). Pure i mistici occidentali di qualsivoglia provenienza ed epoca ‒ da Plotino (la cui proposta: aphele panta [distaccati da tutto] implica la presa di distanza dalla volizione/ambizione rispetto a qualsiasi cosa, come tratto imprescindibile all’ascesi verso l’Uno) fino a Simone Weil e a María Zambrano ‒ hanno sempre considerato auspicabile la detronizzazione dell’io e il ritener vana ogni sua meschina volizione. Per concludere, sintetizzando oltremodo, askesis comporta dunque equanimità, accoglienza, svuotamento (kenosis), affidamento pieno e fiducioso (in Dio, nel Tutto, nella natura, nella vita), non-attaccamento (o distacco dal non-essenziale), amore oblativo (agape), nonché il dileguarsi d’ogni genere di rimuginazioni/recriminazioni, onde pervenire a quella condizione paradisiaca in terra che il grande poeta e mistico tedesco Angelus Silesius ha più volte celebrato nei suoi versi  quale Seeligkeit ovvero beatitudine.

Giovanni Ferraro,

Áskesis. Il perfezionamento di sé,

Moretti&Vitali, 2022,

pp. 233, euro 22,00

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