Connect with us

Religione

Apologia dell’islamismo

Published

on

         Enfatica, stucchevole, faziosa, irritante, acritica, anacronistica, indifendibile, insopportabile, stancante, provocatoria, ingenua. Sono queste le prime reazioni emotive che scorrono nella mente del lettore dopo la lettura dell’opera di Laura Veccia Vaglieri dall’emblematico titolo: Apologia dell’islamismo. E, difatti, si tratta proprio di una difesa a spada tratta della grandezza dell’Islâm (nel testo sempre in maiuscolo) come religione e come civiltà, ancorate nella perfezione insuperabile e divina del Corano – «il Libro di Dio, la parola del Vero», «il Miracolo per eccellenza», il «Libro inimitabile» in stile e contenuto (cap. II) –, e sulla «nobilissima figura» (cap. I) di Maometto, eccelsa in «equità» (cap. V). Un’apologia, dunque, che viene redatta per rispondere (meglio, rintuzzare) le critiche mosse dai detrattori dell’ Islâm – ora definiti come «non credenti» (cap. VI), ora come «nemici più acerrimi dell’ Islâm » (cap. I, cap. V), ora come i «denigratori dell’ Islâm » (cap. V), ora addirittura come «miscredenti» (cap. IV) ed «infedeli» (cap. V) –, ispirandosi non tanto alle conclusioni cui sono giunti gli studiosi occidentali – che sono privi di quel «necessario zelo devoto» (Introduzione) – quanto alle «idee dei più insigni scrittori islamici», attenendosi in particolare «ai soli moderni» i quali, venendo «a contatto con la vita occidentale e rivoltesi a considerare amorevolmente l’ Islâm, hanno saputo scorgere in esso la capacità di adattarsi ai bisogni dei tempi nuovi e tentato di imprimergli un movimento di evoluzione» (Introduzione). Primo fra questi scrittori islamici, figura il riformista Muhammad ‘Abdud (1849-1905), la cui opera principale è la Risalat al-Tawhdîd (“Epistola sull’unicità”). Da qui il duplice proposito dello scritto: illustrare «la vera essenza della nostra religione, che è l’unica foriera di tutte le felicità» (cap. VI), così da «far comprendere a tutto il mondo che la religione islamica, oltre ad essere esente dagli errori (…) è il codice della felicità vera, è l’angelo della civiltà vera e quindi tutti le debbono rispetto e amore, come i grandi filosofi che la studiarono e le prestarono fede»; secondo, «sforzarsi di cancellare le eresie che trascinano in basso il mondo islamico e rappresentano una macchia nera sulla fronte dell’Oriente, una causa di derisione per chiunque abbia un tantino di giudizio» (cap. VI).

E sorprende che uno scritto così polemico, pari solo alla più vecchia apologetica cattolica, fu scritto da Laura Veccia Vaglieri (1893-1989), una delle prime e più illustre arabiste italiane, docente presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, studiosa di diritto con ricerche sulle fonti della scuola giuridica ibadita. Fino agli anni ’90 del Novecento, la sua magistrale Grammatica teorico-pratica della lingua araba – in due volumi, editi dall’Istituto per l’Oriente nel 1937, il primo, e nel 1961 il secondo, con le successive ristampate in fotomeccanica nel 1993 e nel 2006 – dominò gli studi dell’arabo nelle diverse Facoltà di lingua e di Islamistica delle Università italiane.     Se in seguito fecero la loro comparsa altre grammatiche, come quello di Agnese Manca, Grammatica (teorico-pratica) di arabo letterario moderno, Associazione nazionale di amicizia e di cooperazione italo-araba, Roma 1989 – che fu il mio manuale all’Istituto Orientale di Napoli – o quello di Claudia Maria Tresso, Lingua araba contemporanea. Grammatica ed esercizi, Hoepli, Milano 2001 – quella della Veccia Vaglieri resta ancora oggi un punto di riferimento importante per chi voglia approfondire lo studio dell’arabo classico. L’agile libretto è dedicato ad uno dei pionieri dello studio del diritto islamico in Italia, Carlo Alfonso Nallino (1872-1938), che fu direttore dell’Istituto per l’Oriente e promotore della pubblicazione della Grammatica, come l’autrice ricorda, nell’Introduzione al I volume, p. II, esprimendo i voti della sua gratitudine.

La mia Prefazione intende aiutare il lettore a superare la tempesta emotiva di repulsione provocata dalla lettura del saggio o, mettendolo previamente in guardia, evitare che essa si scateni.

In effetti, ad un primo livello di approccio, il testo, che intende decantare soltanto la «sorgente d’acqua pura e vivificante [che è] la religione islamica» (cap. I), come la religione perfetta, perché di origine divina, assolutamente priva di difetti e di errori, si presenta con una massiccia dose di faziosità acritica, stucchevole e anacronistica; nessun orientalista, oggi, scriverebbe un libretto del genere. Se poi aggiungiamo che l’autrice intende presentare l’islam come l’unica civiltà foriera di luce e di pace – come se in Occidente non ci fossero mai stati Platone, Aristotele, Cicerone, Virgilio, s. Agostino, Galileo, Michelangelo, Leonardo, Newton, Kant Einstein, Hawking e tanti altri – beh, questa provocazione, particolarmente insopportabile, accresce l’irritazione. Peraltro, nella strenua e cieca difesa dell’Islâm, l’autrice si premura di precisare che i difetti e gli errori della civiltà islamica sono ascrivibili solo agli uomini – ai cavalieri islamici dei primi secoli (cap I), o in seguito ai giuristi e ai teologi dogmatici (cap. VI-VII) o, infine, agli invasori stranieri (Turchi, Tartari, Mongoli) che introdussero le loro superstizioni (cap. VII) –, ma non alla religione islamica, la quale ha l’innata capacità di evoluzione così da adattarsi alle culture e alle fasi storiche dell’umanità. Questa assenza totale di autocritica rende il testo particolarmente stucchevole.

Fin qui, come detto, quello che si potrebbe chiamare il primo livello di lettura del saggio.            Superato lo sconcerto di fondo – o, come detto, preannunciandolo –, esorto il lettore a far decantare tutta l’abbondante enfasi dello scritto, scremando il testo dalla forma, così da far emergere il contenuto. Ebbene, è in questo secondo livello di lettura che lo invito a apprezzare il testo. Anzitutto, sgombrando l’idea che l’autrice, benché erudita, fosse una fanatica, invaghita ciecamente dell’Islâm. Basti leggere le Introduzioni alla Grammatica per rendersi conto di una sensibilità umile e affabile. Benché l’Opera sia di una qualità assoluta (per il tempo), l’autrice con modestia riconosce che «un libro come questo non può essere privo di difetti»; da qui l’invito a «qualche dotto arabista» di comunicarle le sue osservazioni, così da essere «grata se là dove ha errato egli rileverà i suoi errori e là dove ha visto giusto le darà la sua approvazione» (Introduzione al vol. II, p. VIII); l’esortazione è rivolata anche agli insegnanti, affinché le comunichino «critiche e osservazioni»; saranno loro «i migliori correttori del suo lavoro» (Introduzione al vol. I, p. II). Particolarmente toccante è la gratitudine mostrata nell’Introduzione al vol. II, in cui ricorda il suo «indimenticabile maestro arabo, Mons. Basilio Cattan». Se nel nostro libretto, Ebraismo e Cristianesimo sono trattati con una certa superiorità, e ai loro sapienti e sacerdoti non sono risparmiate sprezzanti critiche – come «falsi detentori di misteri, i sensali della salvezza» (cap. II) –, qui il tono è completamente differente. «Mancherei ad un dovere di riconoscenza se non ricordassi con animo devoto qui, come già nell’Introduzione al I Volume, l’affettuosa, paziente, collaborazione di un appassionato cultore della propria lingua, d’un purista uscito dalla scuola di filologi quali Ibrâhîm al-Yâzigî: Mons. Cattan non solo per anni mi ha guidato nei meandri delle antiche grammatiche arabe e mi ha aiutato a interpretare gli scritti dei grammatici d’epoca vicina a noi (…), ma, attraverso una casistica a non finire di frasi arabe o tradotte assieme dall’italiano in arabo, mi ha reso possibile la costrizione d’una materia spesso fluida entro gli involucri di norme generali» (Introduzione al vol. II, p. VII). Un simile attestato di stima è riportato nell’Introduzione al I volume, nel quale manifesta una profonda gratitudine alle persone che sono state prodighe di aiuto, tra cui, «S. E. Mons. Basilio Cattan, Arcivescovo titolare di Preconneso, cui già tanta gratitudine dovevo in precedenza per i suoi preziosi insegnamenti, il quale ha avuto la bontà e la pazienza di assoggettarsi ad una accurata revisione delle bozze, lavoro sempre improbo, ma doppiamente fastidioso in un libro di questo genere» (p. II).

Considerato, dunque, l’animo umile e devoto dell’autrice, come leggere, dunque il saggio? Come insegnano le scienze che si occupano di scrittura e di letteratura, dobbiamo tenere conto del tempo della composizione, dei destinatari, dello scopo, delle fonti e del genere letterario (lo stile). Ebbene, lo scritto, del 1925 – siamo dunque agli inizi della scienza orientalistica –, risente del pensiero di Muhammad ‘Abdud. Questo autore è conosciuto dall’islamistica per aver essere tra i protagonisti della Nahda, la Riforma islamica. Con la sua opera tentò di rispondere alla grave crisi identitaria che aveva colpito le società islamiche dopo la spedizione di Napoleone in Egitto nel 1798. A fronte della superiorità culturale, militare, economica dell’Occidente, i riformatori come Muhammad ‘Abdud si chiesero come reagire. Anzitutto è proprio qui che dobbiamo registrare lo stato d’animo del pensatore, che si riflette sulla nostra autrice. I musulmani venivano accusati di arretratezza proprio a motivo della loro religione, del Corano, e della personalità di Maometto. Da qui la reazione dei riformisti che tentarono «di restituire all’islam la forza perduta e il prestigio vacillante mediante un’azione al contempo critica e apologetica» (Branca, Introduzione all’Islam, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 1995, p. 272). Muhammad ‘Abdud, in particolare, si prodigò per spiegare come non fosse l’Islâm in sé il fattore del suo declino, bensì il fatalismo di tradizioni spurie, l’imitazione sterile dei trattati di diritto, l’antinomia tra la ragione e la fede, che, anzi – sulla scorta delle tendenze mu’tazilite maturate dai primi pensatori dell’Islâm – sono coincidenti: «l’islam è la religione della ragione e della scienza»; in caso di conflitto, si può far prevalere la ragione sulla rivelazione, ricorrendo, appunto come per i mu’taziliti, all’interpretazione allegorica (ta’wîl) del Corano (K. F. Allam, L’islâm contemporaneo, in G. Filoramo [a cura di], Islam, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 240). È su questo sfondo culturale (difesa apologetica dell’ Islâm dalle accuse dell’Occidente) e sulla costante applicazione dei principi di Muhammad ‘Abdud, che possiamo contestualizzare e nello stesso tempo interpretare più serenamente il saggio dell’autrice.        In effetti, come accennavo in precedenza, dopo averlo scremato da tutta la veste polemica e nello stesso tempo enfatica, a poco a poco il testo così decantato fa emerge il suo valore. Si tratta di una brillante sintesi di quelli che saranno i temi essenziali oggetto dell’islamistica, che nei decessi successivi saranno organizzati e sistematizzati compiutamente (da Alessandro Bausani, Alberto Ventura, Paolo Branca e tanti altri): la parte storica (con l’inizio della civiltà islamica e le conquiste), la parte dogmatica con le fonti dell’islam (Corano, Sunna, consenso e ragionamento), dalle quali i giuristi hanno estratto la legge islamica, la quale regola ogni aspetto della vita individuale e sociale; la parte rituale (con i pilastri che esprimo la religiosità quotidiana del musulmano); quella dogmatica, con gli articoli della fede (oggi, come ha osservato Maurice Borrmans, raramente commentati dai catechismi e dai commentari coranici), per finire con il sufismo e i temi di “attualità”, con la relazione tra Islâm, filosofia e scienza.

Certo, qualche passaggio è particolarmente infelice, come quando l’autrice azzarda un’improbabile difesa della poligamia – per cui «non si è dimostrato in modo assoluto essere un grave danno sociale» (cap. V) – o della segregazione femminile, che preservò «i paesi d’Oriente (…) da ogni prostituzione mercenaria», per cui «il costume del velo e la non partecipazione delle donne alla vita pubblica, se, sotto un certo punto di vista, rappresentano un danno, sono d’altra parte fonte di bene incalcolabile per la società mussulmana» (cap. V).

Sbaglia prospettiva, dunque, colui che, fermandosi ad un primo approccio di lettura, intenda intraprendere con le tesi del testo una discussione dialettica, nei punti appena menzionati come in altri sparsi per il volume. Esso, piuttosto, va accolto così com’è, collocandolo nel contesto storico della Nahda, filtrandone l’indole polemica e apprezzandolo per la sintesi di islamistica che, ben novantaquattro anni fa, l’autrice, cui va la nostra gratitudine, ci ha abbozzato. In seguito gli studi si perfezioneranno, saranno più puntuali e critici; ma questo segna una pietra miliare.à

Recensione di padre Marcello Di Tora, domenicano, del libro di Laura Veccia Vaglieri, “Apologia dell’islamismo”, Edizioni La Zisa, pp. 100, euro 9,90

Continue Reading
Click to comment

You must be logged in to post a comment Login

Leave a Reply

Copyright © 2020 Leggere:tutti