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Ingo Schulze, ovvero “La felicità dei mobilifici”
La felicità dei mobilifici, di Ingo Schulze, è un libretto insolito, leggibilissimo e godibilissimo: a cavallo fra il saggio e il racconto, il testo autobiografico e storiografico, la narrazione e la riflessione grazie ad un’agile ma attenta scrittura che alterna aneddoti spassosi a elementi drammatico-documentaristici. Ma in primo luogo dirò subito che tale autore, purtroppo ancora poco noto in Italia ‒ sebbene alcuni suoi testi siano stati pur tradotti e pubblicati nella nostra lingua da un editore popolare quale Feltrinelli ‒, viene oggi considerato non solo tra i più grandi scrittori tedeschi, ma anche tra i più autorevoli intellettuali europei contemporanei.
Ripartiamo allora dal titolo, originalissimo, che ci conduce subito nel cuore di questo scritto dove si prendono in esame le maggiori contraddizioni d’una realtà odierna globalizzata, all’insegna del capitalismo imperante, che troppo pochi osano mettere in discussione. Schulze, che è cresciuto nella Ddr (la Repubblica democratica tedesca), ammette senz’altro la propria adesione giovanile al comunismo, dedicando all’ingenuità degli idealisti della fu Germania dell’Est pagine tutte giocate tra il tono ironico e l’accorato disincanto. La Ddr è un Paese che non esiste più (e che ben pochi rimpiangono) ma in cui, per un giovane, trovare quantomeno lavoro o abitazione decenti era la cosa più facile da realizzarsi e dove ‒ e aldilà della retorica di regime sull’uguaglianza fra i lavoratori ‒, gli stipendi di un operaio specializzato e di un medico erano davvero più o meno gli stessi.
Però con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, le cose iniziano a cambiare molto rapidamente. Chi sollevava un qualche dubbio sulla nuova realtà/libertà veniva considerato un “inguaribile passatista”. La conquistata “normalità”, ricorda Schulze, viene così a coincide con la cosiddetta fine delle ideologie, ovvero con l’inizio dell’unica ideologia abbracciata da tutti: quella all’insegna del capitale. Anche nell’ex Germania dell’Est prende quindi piede assai velocemente: “un economicismo onnipervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato”.
In poche righe l’autore riassume e critica quindi con lucidità e puntualità il senso (o non-senso) del nuovo modo di vivere e operare nel mondo post-comunista della Germania orientale fine XX secolo, dove ormai ogni cosa era subordinata ai soldi, al Pil o ad una crescita che non avrebbe dovuto fare altro se non aumentare sempre di più e dove: “sembrava che con il denaro si potesse fare tutto, nel bene e nel male”. Così anch’egli, ambendo al benessere: al paradiso in terra promesso dal Dio profitto, diviene imprenditore. Peccato che, confessa senza tante attenuanti il pentito Schulze: “La mia felicità era l’infelicità degli altri”. Anzi, cosa altro era, se non: “La felicità dei mobilifici e delle concessionarie?”
Il nostro ex-comunista, deluso dalle magnifiche sorti e progressive promesse dal capitalismo, dichiara inoltre senza mezzi termini e con una chiarezza/sinteticità encomiabile: “Il bel mondo della nostra merce è sorretto nel profondo da un lavoro massacrante e non troppo diverso dal lavoro schiavile”. E anche rispetto alla plutocrazia minoritaria che guida il mondo le parole del j’accuse di Schulze sono nette, affilate, dure, ma condivisibili: “La pretesa, da parte dei detentori di questi patrimoni, di farne fruttare gli interessi conduce alla riduzione dei salari, alle privatizzazioni dei beni pubblici, allo sfruttamento smisurato della natura e all’indebitamento di famiglie, imprese e Stati”.
Non che vi sia nell’autore nostalgia o rammarico alcuni per il mondo andato del socialismo reale, ma egli sottolinea tuttavia come in esso vi fosse comunque, specie tra gli intellettuali e gli artisti, una sorta di positiva “tensione utopica”, poi venuta meno. Mentre oggi più che mai, a detta di Schulze, la letteratura e ogni forma d’arte dovrebbero costantemente/strenuamente: “mettere in discussione” le “cose che consideriamo normali” e che tali non sono affatto, se solo pensiamo che poco oltre la soglia delle confortevoli dimore borghesi, tedesche o europee che siano: “regna la miseria più totale e la gente muore”.
È dunque contro questa resa ad uno stato di cose che riteniamo immodificabile, contro questa vera e propria ignavia (la quale non appartiene solo alla borghesia ma ha contagiato pure quello che un tempo era detto il proletariato) che si batte da tempo Ingo Schulze; cercando di promuovere con i suoi scritti la presa di coscienza collettiva di quanto sia assurdo perseguire ad ogni costo una realizzazione umana, una felicità che si riduca appena a quella dei mobilifici.
Ingo Schulze
La felicità dei mobilifici
a cura di S. Zangrando
Marietti 1820, 2021
pp. 85, euro 10,00
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