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Quanti Natali ricordiamo?

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di Gianni Zagato

“Poiché non sappiamo quando moriremo, siamo portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro, o cinque volte, o forse meno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti. Eppure tutto sembra senza limite…”.

Paul Bowles, Il tè nel deserto.

 Quanti Natali, e quanti Capodanni, ricordiamo della nostra vita? Quanti ci appartengono intimamente, intendo. In un ricordo nitido, sedimentato nella nostra memoria del vivere, e capace di rivenire a noi dentro il tempo, e restituirci, intatta, l’emozione di averlo vissuto. Pochi, in verità, ad essere sinceri con noi stessi. Lunga invece è la sequela abitudinaria che finisce per renderli, questi nostri Natali, tutti uguali, indistinti. E l’uno che si sovrappone, o si scambia, con l’altro, proprio per il fatto che non giunge più a noi un ricordo preciso a rendercelo unico. Questo Natale del contagio rimarrà segnato in noi per sempre, invece. Come un confine, come uno spartiacque, capace di separare senza alcuna incertezza, nel calendario del nostro esistere, quel che c’è stato dopo da quel che esisteva prima. Possiamo esserne certi, che sarà così; e che lo sarà per tutti, nessuno escluso. Perché tutti veniamo da una di quelle esperienze in grado, più di ogni altra, di renderci comuni: quella solcata dal dolore. Il Natale, possiamo essere credenti o no, rimanda ciascuno di noi a quel che chiamiamo il sacro: il presentimento di essere nella nostra vita, nel mondo, al cospetto di qualcosa di più grande di noi. Che ci ghermisce, ci impaura, ci attrae. E ci interroga, ben al di là delle risposte, parziali, o consolatorie, che riusciamo a darci. Nello strepitio di parole che di questi tempi ci assorda, nel lamentio di quel che ci verrà tolto in questo Natale attraversato dalla sofferenza, la nostra più colpevole condotta rischia d’esser quella di smarrire, ancora una volta, questa dimensione del sacro. Perderemmo così quell’intima parte di noi che ci riconduce alla fragilità dell’essere, proprio nel tempo di una pandemia che la squaderna e fortemente ce la rivela, più fortemente di ogni nostro desiderio, o bisogno, di rimuoverla dall’orizzonte di una quotidianità che pensiamo, e viviamo, sempre e solo come normale. Chiediamo alla scienza, chiediamo alla politica, una via d’uscita definitiva dal contagio. Ed è giusto, è necessario: soltanto, che non basta, e non basterà. C’è un fare i conti con noi stessi, che ancora manca. Con la nostra idea di relazione umana, di produzione, di consumo, di organizzazione sociale, e di destino di comunità, così difficile da coltivare e da praticare. Eppure da qui toccherà ripartire. Anche solo scrivendo quelle parole di Paul Bowles in un foglietto di carta, uno qualsiasi, come il biglietto del tram o lo scontrino del caffè. E tirarlo fuori dal taschino per tornare a rileggerle, in qualche tempo morto del nostro frenetico vivere. Ricordando a noi stessi come sia prezioso guardare, un’altra volta ancora, il levarsi della luna.

 

 

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