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200 anni… e ancora Infinito
L’infinito di Leopardi: se ne parla su Leggere:tutti di Novembre
L’Infinito è stato composto da Leopardi nel 1818 e, malgrado i suoi due secoli, è sicuramente una delle metriche più conosciute e più giovani. A cercare di definire l’infinito ci hanno provato in tanti: filosofi, matematici, teologi, ma Leopardi ne ha colto la vera essenza.
Parlare di antichità e infinito, però, non è una storia infinita: questo concetto infatti non ha accompagnato l’uomo dall’alba dei tempi; le più grandi civiltà del passato – maya, egizi, babilonesi – non avevano quello dell’infinito come “punto all’ordine del giorno” e certamente non per carenze intellettuali, ma semplicemente perché per loro la vita era qualcosa di tangibile e pratico, fatta di problemi da risolvere. Sono stati i greci a parlarne per primi, danzando sul filo sottile che da sempre intesse filosofia e matematica: Anassimandro (609-547 a.C.) fa coincidere il principio delle cose nell’apeiron, che però viene identificato anche con la causa della dissoluzione. Occorre però dire che l’idea di infinito dei Greci non è quella che abbiamo noi: il termine apeiron letteralmente significa “senza confini”, ossia “quello che sta oltre il confine”, e dunque è indefinito piuttosto che infinito. I greci lo guardano con paura e sospetto, ancorandosi sempre a ciò che esiste, come fa Anassimene (586 – 528 a.C.) quando individua nell’origine delle cose “l’aria infinita”, poiché illimitata e onnipresente. Così la matematica pitagorica fonda le sue origini sul concetto di “discontinuità”, basata sull’accrescimento di una grandezza tramite salti discontinui di numeri interi, quindi finiti. Monadi, grandezze finite e comuni denominatori in primo piano, dunque. Sullo sfondo il terrore dell’infinto che si materializza quando, nella stessa scuola pitagorica, si scopre che costruendo un pentagono regolare e tracciandone le diagonali, si origina una stella a cinque punte che contiene un altro pentagono regolare, più piccolo, e che le sue diagonali avranno come risultato un’altra stella… e così via: all’infinito, appunto.
Poi c’è Aristotele che si avvicina al concetto ma poi prende le distanze quando postula che “il numero è infinito in potenza, ma non in atto […] Questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici, ma […] in realtà essi stessi allo stato presente non sentono il bisogno di infinito, ma di una quantità più grande quanto essi vogliono, ma pur sempre finita”.
Infinito sì, ma non troppo.
Anche Euclide ci sembra parli di rette infinite e invece il testo originale dice che una retta può essere prolungata “secondo necessità”.
Insomma, l’infinito dei greci è un infinito potenziale: tutto cresce, ogni quantità può essere aumentata, ma rimanendo sempre attaccati alle gonnelle di un valore finito.
Il concetto di infinito si fa mobile nel tempo, suscitando trattazioni specifiche e suggestioni impalpabili, legate alla non-materia dell’argomento, alla sua molteplice applicazione e anche all’inscindibile rapporto con il mondo spirituale; nel Medioevo lo si associa al Dio cristiano, alla religione che, a guardar bene, invece, è colma di limiti – o per meglio dire limitazioni –regole e postulati. I secoli bui cedono il passo all’Umanesimo e la situazione si ribalta: infinito è l’uomo, centro assoluto, copula mundi, elemento di connessione tra terreno e divino.
Anche Galilei non può esimersi, e sembra camminare sulle uova quando, pur ammettendo l’impossibilità di eludere l’infinito, conclude – nel Dialogo sopra i due massimi sistemi – con l’inattuabilità di applicare all’infinito gli strumenti validi per il finito: ancora una volta, quindi, vince il “finito”.
La matematica, le scienze tutte, hanno continuato affannosamente a corteggiare l’infinito, o forse a farsi corteggiare, e ci vorrebbe una vita intera per raccontare questo amore/odio, ma ci vuole invece “solo” molta attenzione nell’imbarcarsi in Breve storia dell’infinito (Adelphi) di Paolo Zellini che rincorre questo mostro inconoscibile passando dai greci alla contesa fra l’Uno e il Molteplice, insinuandosi nel caleidoscopio di visioni che hanno interessato la materia nei tempi, fino ad arrivare alle vertigini della matematica moderna, al legame con la realtà cosmica e quindi a quel concetto di infinito attuale, che Leibniz, Bolzano e soprattutto Cantor mettono in piazza.
A fondere le materie in un unico “infinito” ci ha provato anche John Barrow con Da zero a infinito. La grande storia del nulla; qui la scienza inciampa nella matematica, lo zero sfida l’infinito, il vuoto dei buchi neri e l’ipotesi che tutto sia nato dal nulla. Il tema è l’infinito, eppure Barrow parla abbondantemente del “niente”.
È forse questo che rende l’infinito, infinito? La possibilità di inglobare, accostare e far giacere in sé tutto e niente? La mente, se presa alla sprovvista, quando pensa all’infinito riesce a cristallizzare qualcosa di esteso nel tempo e nello spazio, di per sé calcolabili ma anche infiniti. Tempo e spazio, però, non sono solo unità di misura, ma sono anche gli anni della nostra vita, i ricordi, le prospettive per il futuro, le mura domestiche, il prato in cui facciamo un pic-nic, le stelle cadenti sulle quali esprimiamo i desideri. Questo per dire, come fa Rudy Rucker nel suo La mente e l’infinito. Scienza e filosofia dell’infinito, che il rapporto dell’uomo con questa materia supera di molto l’arido gioco accademico. Ed è quello che fa anche Eugenia Cheng parlando di matematica astratta come una ginnastica per la mente e, perché no, divertimento e soprattutto partendo dalla domanda fondamentale: che cos’è l’infinito? “È un numero? È un posto? Se non è un posto come posso raggiungerlo e magari superarlo?”. Domanda che stringe l’occhio a Zenone e i suoi paradossi perché, come è possibile superare qualcosa che di per sé non ha un inizio e neanche una fine?”. E dunque, per capire il tanto agognato infinito, dobbiamo solo usare l’immaginazione oppure ancorarci a Dio? Studiare per decenni, o considerare i numeri come depositari di questo enorme mistero?
Torniamo a noi, a Leopardi. Grazie a lui sono duecento anni che “esiste l’infinito”. Significativamente nella poesia di Leopardi si ritrova l’apeiron dei greci, l’indefinito quello che sta oltre il confine, in questo caso la siepe. Il Poeta di Recanati ha fatto un incantesimo: un idillio di quindici versi, il dodicesimo dei suoi Canti. E per parlarne ha usato perimetri ben definiti, paradossalmente: c’è un persistente dato fisico nei suoi versi – il colle solitario, la siepe, il vento, il fruscio delle foglie – e la magia arriva quando l’essere umano, a contatto con tutto ciò, dopo aver percepito gli elementi, vaga con l’immaginazione e con l’emozione, fino ad arrivare a “interminati spazi”, quindi all’assenza di una fine fisica, materica, spaziale. E poi, si sa, lo spazio e il tempo sono così vicini da far paura, vicini e senza fine, vicini tanto da nascere l’uno dall’altro e darsi la mano, fare piroette, danzare nella nostra mente. È questo quello che fa Leopardi di fronte all’ermo colle quando gli “sovvien l’eterno”? È questo forse il segreto dell’infinito? Fondere ogni singola particella e dare vita all’eterno, al senza fine, al magma inconcepibile del tutto indeterminato?
Borges ha detto: “C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, […] parlo dell’Infinito”. E allora qual è l’impero dell’infinito, se non i bagliori che accende nella nostra mente? Una mente che è finita, almeno così ci hanno convinto, eppure prova di continuo a cogliere qualche sprazzo di infinito, come fa Leopardi su quel colle.
L’ORIGINE DEL SIMBOLO
Il simbolo dell’infinito è ben noto a tutti e oggi lo troviamo ovunque: gioielli, tatuaggi, insegne e quant’altro. Eppure in realtà si tratta di un simbolo matematico. A volte chiamato “lemniscata”, ha la forma di un otto “sdraiato”, quindi orizzontale. Ha origini antichissime tanto da apparire già nella croce di San Bonifacio (morto nel 754), avvolta attorno alle braccia di una croce latina. Ma l’onore di averlo introdotto nel nostro mondo con il noto significato matematico va a John Wallis che nel 1655 lo fa “comparire” nel suo De sectionibus conicis: sembra che sia stato scelto da sulla base di quello usato nel tardo impero romano per indicare il valore 1000 ((originariamente CIƆ, anche CƆ), numero associato anche alle grandi quantità. Si è anche ipotizzato che questa scelta sia stata fatta per somiglianza con la lettera ω (omega), l’ultima dell’alfabeto greco. Ci sono anche altre varianti, come il simbolo utilizzato da Eulero per indicare l’“infinito assoluto”, dove le linee non sono chiuse ma aperte e che non coincide con quello utilizzato attualmente.
Nel tempo il simbolo dell’infinito ha assunto anche altri significati, per esempio, è stato usato dai rilegatori di libri, per indicare la stampa effettuata su carta priva di acidi e quindi più duratura.
Nel misticismo moderno, il simbolo dell’infinito è stato identificato con una variante dell’Uroboro, la cui rappresentazione tradizionale è in realtà circolare, ma che nel tempo ha deviato verso l’infintio: l’Uroboro viene spesso raffigurato con una forma che assomiglia ad un otto (ossia un serpente che si morde la coda) proprio per sottolineare questo parallelismo.
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